lunedì 4 ottobre 2010

Valhalla Rising

Valhalla Rising
Drammatico
(2009)



Interessante produzione scandinava del danese Nicolas Winding Refn, Valhalla Rising ci scaraventa in un medioevo malsano e brutale. L’incipit potrebbe appartenere ad un classico film d’azione all’arma bianca, uno schiavo costretto a combattere in incontri all’ultimo sangue. In realtà siamo di fronte ad una pellicola molto statica e visionaria, caratterizzata da passaggi onirici e allucinatori. Il protagonista (Mads Mikkelsen), uno schiavo guercio che non proferisce mai alcuna parola, è un feroce combattente, ha trascorso tutta la sua vita in catene sfruttato come lottatore nelle scommesse tra tribù. Un giorno riesce a liberarsi, massacrando tutti i suoi aguzzini tranne il giovane ragazzo che quotidianamente gli medicava le ferite. Siamo nel bel mezzo dell’invasione cristiana, che si fa largo con l’acciaio, il paganesimo nordico sta appassendo cedendo il posto al Dio bianco. Sulla strada i due incontrano un manipolo di cristiani, decisi a partire per la Terra Santa. Il ragazzino battezza il guercio “One Eye” e diviene la sua voce, parlando a nome suo. Decidono di aggregarsi ai cristiani, ma durante la rotta una terribile nebbia impenetrabile manifesta un oscuro presagio. Dopo giorni e giorni di viaggio raggiungono una terra apparentemente disabitata, rendendosi conto di non essere a Gerusalemme. Il capo del gruppo si convince di essere stato messo alla prova da Dio e si infiamma in un delirio fanatico. Da questo momento l’eccitazione allucinatoria, scatenata da un liquido tracannato a turno da tutti, prende il sopravvento.
Si tratta di una produzione decisamente atipica, che potrebbe annoiare chi è alla ricerca di combattimenti e azione dura e pura. A parte i primi venti minuti, in cui il protagonista ci dimostra la sua spietata abilità guerriera, il film prosegue lentamente, con scarsi dialoghi e scene d’azione quasi inesistenti. Una splendida fotografia rende ogni scena una goduria per gli occhi, si respira un’atmosfera onirica che esplode nei brevi istanti visionari del protagonista, patinati di un rosso sanguigno e viscerale. È abbastanza chiaro il parallelismo con Odino, il padre degli dei della mitologia norrena, anche lui con un solo occhio (One Eyed God). I toni profetici sono perfettamente in linea con la religiosità nordica, caratterizzata da un destino ineluttabile al quale nessuno può sottrarsi e verso il quale non si nutre alcun timore. One Eye ha visioni di morte, compresa la propria. Combatte senza alcuna paura e va verso la propria fine senza opporre resistenza. È in questo momento che la Valhalla inizia a manifestarsi, la mitica sala dove i guerrieri vengono accolti dopo la morte. È anche abbastanza evidente la critica al fanatismo cristiano, che porta all'annientamento dell’intero gruppo. Estremamente suggestivi i paesaggi, sia le brumose terre del nord che le primordiali lande americane, il clima plumbeo onnipresente è amplificato dalla natura vergine e selvaggia. Aleggia anche un sentore di bluff in seguito alla bevuta comune dell’allucinogeno; il paesaggio circostante si trasforma, tornando ad essere quello uggioso e brullo del Nord Europa. Se in realtà non fossero mai partiti o se fossero morti durante il viaggio, se fosse tutto un sogno? Non ci è dato saperlo, è abbastanza chiaro l’intento di lasciare in sospeso gli interrogativi che nascono nel corso della narrazione, volutamente criptica.
Introspettivo, psichedelico, spietato.

VOTO: 7,5

sabato 2 ottobre 2010

Once Were Warriors - Una volta erano guerrieri

Once Were Warriors - Una volta erano guerrieri
Drammatico
(1994)



Ho visto questo film tre volte e tutte e tre le volte continuavo a dirmi che prima o poi sarei arrivato alle scena che non mi sarebbe piaciuta, che da un momento all’altro ci sarebbe stato un calo, che avrei avuto da ridire su qualcosa. La prima volta anche con l’enorme timore che tutto si sarebbe concluso nella solita minestra melliflua buonista. Ero sempre lì a chiedermi se non mi fosse sfuggito qualcosa, se ero stato attento durante la visione precedente. E sono contento di non essermi sbagliato minimamente. Lo vidi per la prima volta poco più di un anno fa, un film culto di cui avevo sentito parlare con toni entusiastici, apprezzato da una cerchia non proprio underground ma comunque abbastanza limitata. Lo rividi poi un paio di altre volte nel giro di un anno. Niente, impeccabile. È diventato uno dei miei film preferiti, entrato di prepotenza nella mia personale lista (metamorfica!) dei dieci titoli che porterei con me se venissi confinato ad vitam su Urano.
Regia di Lee Tamahori, Once were Warriors è tratto dal romanzo omonimo di Alan Duff (introvabile, almeno in italiano), ambientato nella Nuova Zelanda dei primi anni novanta. È il ritratto dello squallore di vite emarginate e precarie, distrutte dall’alcool e dalla violenza. La famiglia protagonista è succube di un patriarca violento, Jake “The Muss” Heke (Temuera Morrison), italianizzato in Jake la Furia, conosciuto e temuto in tutta la città per la sua particolare aggressività. Alcolizzato e senza lavoro fisso, ha sfornato cinque figli di cui non si cura minimamente, a stento si ricorda della loro esistenza. La moglie, Beth, è profondamente innamorata, nonostante le violenze che subisce quotidianamente. La situazione diverrà sempre più tesa, il quadro famigliare sempre più incrinato. I due figli maggiori vivono di espedienti, il più grande si unisce a una gang locale, il più giovane inizia a commettere i primi furti fino a quando non viene portato via dalla famiglia, giudicata incapace di crescerlo. La figlia più grande si occupa dei due giovani fratellini, raccontandogli favole e rimboccandogli le coperte ogni notte. È una ragazza immacolata, candida, innocente, incapace di concepire il mondo brutale in cui è stata scaraventata, perennemente infelice e afflitta da una situazione famigliare che la terrorizza e da un mondo esterno che non le offre nulla se non altrettanta disperazione. È l’unico personaggio che incarna a tutto tondo aspetti positivi, che stridono con il contesto. La sua positività verrà completamente spazzata via dalla violenza carnale che subirà in silenzio, mortificandola, senza che nessuno se ne accorga. La madre Beth è un personaggio cardine che dovrebbe rappresentare un equilibrio (molto precario) ma che di fatto si ritrova sempre incapace di fronteggiare l’ira del marito, contribuendo a rendere la situazione invivibile. Tutto si risolverà solo nel dramma finale, apoteosi tragica dell’intera pellicola, riassunto straziante della disperazione e della miseria umana.
Il titolo, “Una volta erano guerrieri”, incarna un filo diretto tra passato e presente, il decadimento di un’etnia dignitosa e guerriera, quella Maori, che in seguito alla colonizzazione inglese si ritrovò assoggettata a dominatori che corrosero gli animi con alcool e schiavitù. Una volta erano guerrieri, poi schiavi, ora dei cani che si contendono le briciole di ciò che è rimasto, incapaci di veicolare la propria rabbia e frustrazione se non contro le persone più care e più vicine.
Il momento topico e sublime dell’intera pellicola è racchiuso in un solo minuto, la gita in famiglia dopo una temporanea riappacificazione, sulle note di “What’s the time Mr.Wolf” dei Southside Of Bombay, una scena da brividi non tanto in sé ma dal momento in cui viene rapportata all’intera vicenda, uno sputo di felicità dal retrogusto doloroso.
Affresco spietato e drammatico di una realtà miserabile, stupendamente tragico.
Capolavoro.