mercoledì 24 novembre 2010

Robert A. Heinlein - Il terrore dalla sesta luna

Robert A. Heinlein - Il terrore dalla sesta luna
Fantascienza
(1951)



Robert Anson Heinlein: un colosso della fantascienza. Probabilmente il numero uno. Indimenticabili capolavori come “Fanteria dello spazio” o “Straniero in terra straniera” hanno segnato un limite, un picco che poche volte è stato ragguagliato. Non si tratta di un autore con una fantasia sconfinata, ma il suo stile inconfondibile ha dato vita a romanzi straordinari. Il concetto di “dare vita” ad un romanzo in questo caso non è una metafora, Heinlein è capace di rendere concrete, palpabili e soprattutto verosimili le sue storie. Ricordo ancora che leggendo “Universo (Orphans of the sky)” mi sentivo completamente immerso nella narrazione, nonostante la semplicità e la linearità dell'intreccio, immedesimato nel protagonista o nel mutante Joe-Jim a fluttuare per condotti o a contemplare l'infinità della galassia. Un altro grande romanzo. È passato quasi un anno da quella lettura e sentivo il bisogno di riprendere in mano un libro del maestro. Sia chiaro, non tutto quello che ho letto fino ad ora mi ha entusiasmato: “Sesta colonna” mi è parso un romanzo poco più che discreto, “I figli di Matusalemme” non va oltre una scarsa sufficienza. E devo dire che anche questo “Il terrore dalla sesta luna” (“The puppet masters”) mi ha lasciato parecchio perplesso. Sicuramente partivo con aspettative troppo alte. Non è uno dei primissimi romanzi di Heinlein ma si può comunque inserire nel primo periodo; siamo quindi di fronte ad uno stile ancora acerbo e in fase di elaborazione.
L'idea di base diventerà un classico, influenzando altri scrittori tra cui Jack Finney e il suo celebre “L'invasione degli ultracorpi (The body snatchers)”. Una razza aliena parassita invade la terra, soggiogando gli esseri umani e annullandone la personalità. I Servizi Speciali indagano e pensano ad una controffensiva, mettendo in guardia il governo americano che però non mostra segni di preoccupazione; l'invasione è impercettibile. Solo quando la situazione inizia a degenerare vengono prese le prime misure drastiche, ma sembra che ormai non ci sia via di scampo.
Il romanzo è scritto in forma di rapporto redatto in prima persona dal protagonista, membro dei Sevizi Speciali. Un discreto incipit ci porta subito nel bel mezzo dell'azione, con i tre protagonisti al completo. Sam, il narratore e primo protagonista, è un uomo atletico e intelligente, logorato dal suo lavoro ma anche morbosamente attaccato ad esso. Mary è una donna coriacea ed affascinante, mentre Il Vecchio, capo dei Servizi Speciali, è un cinico vegliardo estremamente calcolatore, capace di suscitare grande simpatia nonostante l'ostilità che irradia da ogni poro. È il personaggio meglio caratterizzato, estremamente credibile e divertente. I loro rapporti lavorativi si intersecheranno con quelli personali e sentimentali. Quando il governo prende atto del pericolo è necessario che venga studiata una campagna di liberazione; da questo momento seguono una serie di tentativi non proprio coinvolgenti e traballanti, fino a giungere ad un finale interessante e ben elaborato. Il grosso limite di questo libro risiede infatti nel corpus centrale, in cui vengono ripetuti una serie di espedienti e di situazioni già viste per arrivare al finale.
Fondamentale la concezione di Heinlein riguardo l'individualismo, la conservazione della personalità di ogni soggetto è la chiave di volta del genere umano. L'annullamento emozionale perpetrato dai parassiti, anche se (come traspare nel finale) può condurre al nirvana, alla pace dei sensi, è in antitesi con la natura dell'uomo. Perché l'uomo è anche contrasto, tensione, negatività, a volte violenza e distruzione.
Un discreto romanzo di fantascienza, non molto coinvolgente ma abbastanza scorrevole e costruito su idee interessanti.

VOTO: 6,5

lunedì 22 novembre 2010

Franco Battiato - Gommalacca

Franco Battiato - Gommalacca
Elettronica / Pop / Sperimentale
(1998)



Gommalacca, ventesimo album di Franco Battiato, è il punto di partenza per le nuove sonorità proposte dall'artista siciliano. Al suo stile cantautorale, contraddistinto da un ermetico stream of consciousness e dal tono aristocratico (a volte odioso) si aggiungono componenti più moderne di contaminazione rock ed elettronica. Scritto a quattro mani con Manlio Sgalambro (autore dei testi) l'album si rivela decisamente ibrido e sperimentale, senza che però vengano raggiunti risultati eclatanti (al di là di copie vendute e premi vinti). Il limite principale risiede nelle melodie e nelle strutture spesso troppo facilotte e ruffiane che, nonostante la presenza lisergica di chitarre elettriche e sintetizzatori, risultano troppo scontate e fastidiose.
“Shock in my town” è uno dei pezzi migliori dell'album, in cui campionature e componente ritmica mantengono un equilibrio incalzante che esplode nel ritornello. Le tinte plumbee creano un'atmosfera allucinogena e futuristica, resa palpabile dai versi cantati con voce filtrata. Un Battiato in massima forma. “Auto da fé” parte insopportabilmente scanzonata, per poi riprendersi nelle strofe ed ammosciarsi nel ritornello, mentre “Casta diva” (dedicata a Maria Callas) alza leggermente il livello, grazie ad un pathos drammatico accentuato dalle campionature che riprendono la stessa Callas e la sua originale Casta Diva. Sullo sfondo di ritmi tribali e canti aborigeni si apre “Il ballo del potere”, travolgente ma non troppo, rovinato verso il finale da una voce fuori campo che descrive in inglese il T'ai Chi e che conferisce all'intero pezzo una ridicola contaminazione new age. Segue “La preda”, che continua sulla falsariga di quanto già sentito, esente però dalle esplosioni sonore solitamente legate al ritornello. È il pezzo passionale del lotto, che mescola tenerezza ad aspro erotismo, ma senza mordente. Il grosso difetto di questo album sta nelle invadenti sonorità pop inserite quasi ovunque, che purtroppo rovinano delle canzoni potenzialmente interessanti. Ci pensa “Il mantello e la spiga” a risollevare la situazione, grazie alle tonalità austere e apocalittiche. Un senso di inesorabilità assale l'ascoltatore, i momenti di calma sono costruiti su una base grigia e desolante, che sfocia in cacofonie elettriche ed elettroniche mentre la voce, con il suo timbro bionico, si fa sempre più tagliente. La seconda strofa è introdotta da un verso terribilmente impassibile, che recita “Come sempre le foglie cadono d'autunno”; una semplicità disarmante in grado di sprigionare una potenza evocativa straordinaria. “È stato molto bello” è il terzo ed ultimo pezzo degno di nota, la cui calma cristallina si rivela estremamente introspettiva ed emozionante. Con “Quello che fu” e “Vite parallele” si torna alla deriva, ma è con la conclusiva “Shakleton” (dedicata all'omonimo, celebre esploratore) che si sprofonda nell'abisso. Traccia peggiore dell'album (nonostante le discrete soluzioni melodiche), descrive con un tono tra il recitativo e il cantato la spedizione fallita di Shackleton e del suo equipaggio attraverso l'Antartide. I dati biografici vengono sputati da Battiato come se lo stessero ingozzando, creando un effetto ridicolo che rende la canzone inascoltabile.
Siamo quindi di fronte ad un album con buone potenzialità sfruttate male, soprattutto a causa della semplicità e ripetitività di almeno una metà dei pezzi. Spiccano alcune canzoni degne del miglior Battiato e un aborto messo in chiusura. L'intento di immergersi nel mondo contemporaneo attraverso un viaggio mescalinico e meccanizzato è ammirevole, purtroppo il risultato non è dei migliori. Nell'insieme si raggiunge comunque la sufficienza, la pacchianeria è sfiorata solo in certi passaggi e nel complesso l'album è scorrevole e vanta i suoi picchi. Ma non si può parlare di un buon lavoro, né tanto meno di un capolavoro.

VOTO: 6

Tracklist:
1. Shock in my town
2. Auto da fé
3. Casta diva
4. Il ballo del potere
5. La preda
6. Il mantello e la spiga
7. È stato molto bello
8. Quello che fu
9. Vite parallele
10.Shakleton

sabato 20 novembre 2010

PTU

PTU
Thriller / Noir
(2003)



Un Johnnie To più minimalista del solito, che ammorbidisce anche il tocco noir per costruire un elegante thriller metropolitano. Girato nei ritagli di tempo tra una commedia e l’altra (impiegando quasi due anni per concluderlo), PTU (Police Tactical Unit) rappresenta un unicum nella filmografia del regista. Tutto si svolge nell’arco di una nottata nei vicoli desolati di Hong Kong: il sergente Lo (il solito Lam Suet) perde la pistola d’ordinanza durante il rocambolesco tentativo di arrestare una giovane gang locale. La PTU, capitanata dal sergente Ho (Simon Yam), giunge sul luogo dell’incidente; per evitare che i superiori vengano a sapere dell’accaduto, Lo chiede l’aiuto di Ho per recuperare la pistola ed evitare di perdere la promozione. Le vicende dei protagonisti si intersecano inconsapevolmente a scontri tra clan rivali.
La sensazione di uno scontro a fuoco imminente o di un improvviso capovolgimento di scena, tipica del To a cui si è abituati, è qui sostituita da una calma e una linearità che non permettono alcuna sfuriata. L’azione lascia spazio ad uno svolgimento molto più intimo ed astratto.
Lam Suet è il solito impacciato, con la testa (s)fasciata e la sigaretta perennemente tra le labbra, rappresenta il soggetto più scapestrato, incapace di farsi rispettare. Nonostante questo tenta sempre di imporre la propria autorità, con conseguenze spesso ridicole e umilianti. Il sergente Ho è invece più austero e rigido, dirige una squadra e non si fa scrupoli ad abusare del proprio potere pur di ottenere gli indizi necessari. Simon Yam si cala perfettamente nella parte, grazie alla sua immagine severa ed un carisma magnetico che ricordano molto il Kitano più impassibile. Abbiamo anche una terza figura poliziesca, l’ispettrice Leigh (Ruby Wong) , incaricata di supervisionare il lavoro degli altri colleghi. Ostenta una rigorosità a volte eccessiva che lascia trasparire una certa insicurezza, dettata probabilmente dalla scarsa esperienza sul campo. Il guscio protettivo si spezza nel finale, mettendo in mostra la fragilità nascosta. I rapporti tra i protagonisti, seppur contagiati da inevitabili rivalità, raggiungono il cameratismo, senza che sfori nelle classiche manifestazioni machiste o in spacconate gratuite.



Altra protagonista è la città, il cui alternarsi di aree illuminate e zone d’ombra crea uno stupendo gioco di contrasti, valorizzato da una splendida fotografia. Le indagini notturne sono incorniciate da una colonna sonora vellutata, caratterizzata da melodici giri di chitarra che accentuano l’atmosfera solitaria della metropoli.
L’intreccio si risolve in un finale convergente, dove pianificazione e coincidenza si mescolano in quella che sarà l’unica scena d’azione, regalandoci la classica sparatoria da western contemporaneo tipica di To.
Una pellicola carica di pathos e dal sapore metafisico.

VOTO: 7,5

mercoledì 17 novembre 2010

Paranormal Activity 2

Paranormal Activity 2
Horror / Presa in giro
(2010)



Il primo “Paranormal Activity” ancora non l'ho visto, ma se l'andazzo è lo stesso del seguito credo che ne farò volentieri a meno. Ci sono modi migliori per trascorrere un'ora e mezza, compreso sbattere il mignolo del piede contro spigoli di marmo. Il secondo capitolo della saga (sega?) è un ottimo esempio di presa in giro: come sfruttare il successo precedentemente riscosso senza fare il benché minimo sforzo. È un punto di riferimento se si vuole capire come NON fare cinema (anche se qui la parola “cinema” stride, sfigura, sviene, defunge senza estrema unzione). Taglio pseudo-amatoriale (qualche telecamera a circuito chiuso può considerarsi “amatoriale”?), protagonisti amorfi, storia trita e ritrita, qualche brivido scatenato essenzialmente dal volume assordante nelle scene di poltergeist, finale ridicolo. Un cinema che non è cinema (e che non si citino "Rec" o "The Blair witch project" a sproposito), un horror che non spaventa (né diverte). Tanto per precisare, l'ho visto solo perché sono uscito tardi e non proiettavano altro.
Da ergastolo.

VOTO: 2

lunedì 15 novembre 2010

Michael Swanwick - Cuore d'acciaio

Michael Swanwick - Cuore d'acciaio
Fantasy / New Weird
(1993)



ROZZI CIBERNETICI SIGNORI DEGLI ANELLI
Un romanzo decisamente atipico questo "Cuore d'Acciaio" ("The iron dragon's daughter"). Padrino del New Weird, è da molti considerato il primo vero e proprio romanzo del genere. Michael Swanwick reinterpreta la fantasy decontestualizzandola dalla solita ambientazione medievale, creando un mondo variegato decisamente più vicino alla nostra epoca. Dalle città congestionate alle periferie industrializzate, passando alla spietata e verticistica struttura sociale fino ad arrivare alle tecnologie moderno-futuristiche di chiara contaminazione fantascientifica Swanwick ci immerge in un mondo verosimile ma allo stesso tempo incredibile. Una realtà parallela condita con elementi bizzarri a più non posso; uno sterminato numero di razze che popolano il mondo di Faerie, strutture architettoniche assurde (un lugubre medievale che incontra il moderno), magia che si mescola alla scienza, all'alchimia, all'esoterismo. La storia è quella di Jane, bambina umana rapita e costretta a lavorare nelle fabbriche dei draghi ad alta energia. Qui il suo destino si unirà a quello di Melanchthon, drago da guerra malridotto e divorato da un famelico desiderio di vendetta e distruzione.

IL MONDO DI SWANWICK
La prima cosa che balza all'occhio è la vastezza incredibile dell'ambientazione. I primi capitoli ci introducono nelle già citate fabbriche dove vengono assemblati i draghi da guerra. L'atmosfera è quella industriale tardo-ottocentesca; bambini schiavizzati ridotti a lavorare senza sosta in mezzo allo sporco e alle colate roventi di acciaio fuso, sgrassando enormi pistoni o trasportando avanti e indietro taglienti lamiere arrugginite. É ovvio che l'intento dell'autore è quello di creare una certa verosimiglianza con il nostro mondo, anticipando la spietatezza di questa strana società. Un mondo a tutti gli effetti brutalmente capitalista, che sfrutta il pugno di ferro (senza bisogno di nascondere il manganello) per mantenere stabili le gerarchie. Gli elfi sono padroni assoluti e la giustizia è una barzelletta, ogni loro capriccio può trasformarsi in sentenza di morte. Quando Jane riuscirà ad evadere dalla fabbrica si sposterà prima in una cittadina abbastanza provinciale, poi in una città universitaria ed infine negli ambienti agiati dell'alta società. Di pari passo con la crescita della protagonista assistiamo anche all'ascesa sociale, che la rende sempre più cinica. L'ambiente cittadino alterna località squallide e sporche con centri commerciali, negozietti d'artigianato, mercati, grattacieli, ponti sospesi e via dicendo. È veramente splendida l'idea dell'autore di abbandonare il solito, noioso mondo medievale e fiabesco in favore di una realtà corrotta fino al midollo. Il problema della classica ambientazione fantasy non è tanto in sé, quanto piuttosto nell'abuso che ne è stato fatto negli anni, tale da rendere insopportabile ogni storiella melliflua priva di mordente e dove ogni tono realistico va a farsi benedire. I guerrieri della luce contro i signori delle tenebre, dove il male e il bene sono caratteristiche congenite che non lasciano spazio alla minima riflessione morale né ad una potenziale evoluzione dei personaggi. Leggere sempre di guerre terribili dove non viene mai versata una goccia di sangue né amputato un arto, di malvagi nemici caricature del Dottor Male o di infinite descrizioni di roccheforti inespugnabili sullo sfondo di foreste fatate mi dà ormai la nausea. Swanwick ribalta tutto nel vero senso della parola, senza mezzi termini. Passiamo da un estremo all'altro, il suo mondo è di natura volto alla corruzione, al peccato, alla violenza, al sadismo, all'autodistruzione. A volte i passaggi sono così eccessivi da sembrare un po' forzati, ma comunque coerenti. Ossessivo anche l'attaccamento alla sfera sessuale, chiave di volta del romanzo, Jane scopre sé stessa e gli artifici alchemici sfruttando il coito.
Altro elemento caratteristico è la commistione di magia e tecnologia; Swanwick è egregio nelle descrizioni tecnico-scientifiche, dimostrando un'ottima padronanza dell'argomento. La componente magica è sostanzialmente sfruttata da Jane nel campo alchemico, nel quale si specializza durante gli studi universitari. Gli altri personaggi hanno invece doti magiche intrinseche nella loro natura. Ritroviamo qui ogni razza: nani, elfi, troll, orchi, fate, mutanti, lamie, grifoni e chi più ne ha più ne metta.
Un'ambientazione unica che permette ogni tipo di varietà, senza annoiare il lettore con noiosi scontri a senso unico tra razza buona vs razza cattiva nella terra degli gnomi di meringa.

I QUATTRO FOTTIMENTI: FOTTUTO PER FINITO, FOTTUTO PER INCULATO, FOTTUTO PER FREGATO E FOTTUTO E BASTA
È una battuta di Senecio, un bifolco cavallo meccanico. Quando l'ho letta sono scoppiato a ridere, e non mi succede spesso. Si tratta di un ottimo uso dello scurrile, che se sfruttato nelle giuste dosi e calibrato correttamente suscita un gran divertimento senza risultare banale o infantile (mi è addirittura sembrata una sparata degna del miglior Bukowski). Parlando dell'estremismo di Swanwick, ho notato leggendo qua e là on-line che ha dato non poco fastidio ad alcuni lettori. Sono d'accordo che qualche volta l'autore abbia calcato troppo la mano, ma in generale la volgarità utilizzata ben si adatta al contesto. I giovani sono sempre più o meno sboccati, stesso dicasi per le creature dei ceti medio-bassi, senza contare che il mondo di Faerie è di natura molto eccessivo. Mi sembra piuttosto ovvio che queste caratteristiche si debbano manifestare anche nel linguaggio. È più realistico che un troll rozzo ed ignorante dica “Sciocchi ragazzini, tornate al lavoro!” o “Avanti piccoli bastardi, muovete quelle braccia rachitiche!” ? Ovvio, nella fantasy diabetica non è nemmeno pensabile utilizzare un linguaggio del genere, ma contestualizzandolo in una fabbrica Swanwickiana è azzeccatissimo. Discorso diverso per gli elfi, la cui natura aristocratica è riflessa nella loro raffinatezza, ma non mancano i momenti più volgari che denotano una mancanza di gusto e spesso anche di importanza sociale del personaggio descritto.
L'atmosfera del romanzo è perennemente cinica, la morte ingloriosa una costante, tra suicidi ed overdosi lo squallore prende il sopravvento. Non c'è il benché minimo alone di speranza, arrivismo ed egoismo sono sempre al primo posto. È in questo clima che Jane forgia il suo carattere, inevitabilmente spinto all'estremo da un mondo che la ucciderebbe se non reagisse con la stessa spietatezza. Forse nel corso del romanzo l'evoluzione morale della protagonista è troppo unilaterale, anche se emerge in alcuni frammenti, soprattutto verso il finale, un sentimento positivo covato nel tempo ma che purtroppo non si manifesta se non quando ogni speranza è perduta.
La componente sadica si rivela in diverse circostanze, specialmente legate alla razza elfica. Detentori del potere, lo sfruttano nella sua forma più cruda e umiliante, con una noncuranza agghiacciante, dilettandosi in ogni atrocità. Ad esempio, mentre viene descritto un locale alla moda:

“Dietro al bar c'era un'enorme vasca di vetro, illuminata da una forte luce al neon, mentre il resto del locale era immerso in rosso e porpora. Nella vasca un cavallo stava annegando. Le zampe si sollevavano in nubi di bolle. Aveva gli occhi invasati e iniettati di sangue, allungava il collo per sollevare agonizzanti narici alla superficie agitata. Era uno spettacolo straziante. La musica era lenta e romantica, ma forte abbastanza perché il cavallo lottasse in silenzio.”

Qui il weird si manifesta nella sua vena più angosciante, conferendo un retrogusto agrodolce alla vicenda narrata.

IO SONO LA LANCIA ASSETATA DI SANGUE
Melanchthon è un drago da guerra, una macchina per uccidere e devastare, un sauro di ferro votato alla distruzione. A differenza degli altri draghi pare manifestare una certa individualità: ha un preciso obiettivo follemente nichilista e per portarlo a termine ha bisogno di Jane. Sono i mezzelfi i soli che possono pilotare i draghi; il campo magnetico generato dalla struttura di ferro ed acciaio è cancerogeno per gli elfi. Gli umani possono prendere le redini di un drago senza subire danni, ma vengono sempre sfruttati i mezzelfi perché subiscono un processo di indottrinamento che conduce ad una fedeltà quasi fanatica. I draghi vengono utilizzati per varcare la Porta dei Sogni e rapire donne umane, le quali vengono fatte accoppiare con gli elfi e la cui progenie mezzelfa verrà a sua volta addestrata per pilotare le bestie di ferro. I draghi ad alta energia sono ovviamente fondamentali nelle guerre contro altri regni, di cui però qui non si parla.
La struttura del drago è descritta egregiamente, mettendo in risalto il potenziale bellico. Il pilota entra in una sorta di simbiosi:

“Una telecamera onnicomprensiva si chiuse sugli occhi di Jane. Attraverso il sistema di formazione di immagini virtuali del drago, scrutò in uno spettro più ampio della vista umana, triplicato su nell'infrarosso e prosperante nella profondità dell'ultravioletto. I piazzali erano intricate linee di energia arancione e argento, i muri di mattoni dell'edificio reparti erano scogliere di quarzo purpureo. In alto le stelle erano puntini rossi, arancioni, verdi.
Poi cadde, senza trauma alcuno, nei ricordi del drago, e si trovò a volare a bassa quota su Lyonesse su una colatura di napalm. Nubi rosa sbocciavano nella sua scia, gonfiandosi sopra le verdi foreste pluviali. Sentì il brivido dell'accelerazione ipersonica, il flusso laminare dell'aria sulla superficie delle ali quando eseguì una stretta vite per evitare il fuoco di una piazzola antidrago. Le rotte aeree brulicavano di messaggi audio, urla di rabbia e trionfo da parte dei suoi simili, e dello scambio impassibile delle posizioni dei piloti. Macchie nere apparvero all'orizzonte, uno squadrone nemico decollava rapidamente per incontrarli. Allegramente, Jane si volse ad affrontare la sfida.”


Una descrizione che mette in risalto la superiorità tecnologica dei draghi da guerra e l'euforia dello scontro. I muri come scogliere di quarzo purpuree o le nubi rosa causate dal napalm scatenano una potenza evocativa strabiliante.

PREDESTINAZIONE
Il rapporto tra Jane e Melanchthon, pur essendo molto conflittuale, li condurrà verso lo stesso destino. Nel corso della storia Jane conoscerà alcuni personaggi che si incarneranno successivamente in altre figure per lei fondamentali. C'è un continuo perdersi e ritrovarsi sintomo di una predestinazione dalla quale non si può sfuggire e verso la quale il drago nutre un disprezzo totale; odia l'insensatezza dell'esistenza e vuole porre fine a tutto. Sullo sfondo si annida un senso di impotenza, come se qualcuno (la Dea) giocasse con le vite degli altri; il libero arbitrio è un'illusione. La Dea è la divinità unica e suprema da tutti adorata, che esige tributi di sangue; la Decima è il momento di massimo sacrificio, un periodo di violenze in cui perde la vita il 10% della popolazione.
Il Castello Spirale, luogo oltre il tempo e lo spazio, è un'enorme conchiglia che poggia su un oceano infinito; qui risiede la Dea. Si oltrepassano i limiti del reale, anche per l'immaginazione è difficile concretizzare un non-spazio in un non-tempo; le tre dimensioni a cui siamo abituati si moltiplicano e si intersecano.

DIFETTI
Il romanzo non è esente da difetti, principalmente legati all'intreccio. La storia si dilunga troppo in passaggi non propriamente interessanti, seppur sempre dotati di una buona carica di sense of wonder. Lo scioglimento si fa un po' troppo lento e congestionato, il filo del discorso sembra a volte venire meno e si rischia di perdere nella narrazione alcuni elementi chiave. Ovviamente non sto dicendo che sia scritto male, manca solo di una certa fluidità che l'avrebbe reso molto più scorrevole. Di fatto lo stile di Swanwick non è semplicissimo, in quanto condito da numerose spiegazioni tecnico-scientifiche, rimandi filosofici e descrizioni calcolate. Ma questo non è un difetto, anzi, siamo di fronte ad ottime capacità narrative.
Avrei anche preferito una maggiore centralità del drago Melanchthon; resta pur sempre il co-protagonista, ma si tratta di un protagonismo sostanzialmente limitato all'inizio e alla fine del romanzo. C'è però da dire che questa mancanza accentua maggiormente i momenti di presenza, rendendoli ancora più emozionanti e al fulmicotone.
Infine non ho apprezzato molto il finale, un po' troppo semplicistico e spento, seppur in tinta con il grigiore che permea l'intero romanzo.

In definitiva ritengo “Cuore d'acciaio” un libro decisamente consigliato, che avrebbe potuto essere un vero e proprio capolavoro se avesse goduto di un pizzico di azione e di scorrevolezza in più; ma è comunque un romanzo molto valido e originale, lontano anni luce dagli stilemi stantii della solita “fantasy” cialtrona. Reperitelo come potete (visto che è fuori catalogo da 15 anni), anche se non vi piacerà particolarmente vi colpirà per qualcosa. Weird allo stato brado.

VOTO: 7,5

lunedì 8 novembre 2010

Philip K. Dick - I giocatori di Titano

Philip K. Dick - I giocatori di Titano
Fantascienza
(1963)



“I giocatori di Titano” (1963) è spesso considerato un punto basso nella produzione di Dick, principalmente perché offuscato dal precedente “L’uomo nell’alto castello” (o “La svastica sul sole”, del 1962) e dalle successive quattro opere pubblicate nel 1964 (“Noi marziani”, “I simulacri”, “Follia per sette clan”, “La penultima verità”). Inoltre le caratteristiche che renderanno l’autore celebre ed originale nel panorama fantascientifico, quali la psichedelia o i flebili confini spazio-temporali che non permettono di distinguere la realtà dall’allucinazione, sono ancora abbozzate. I deliri psicotici a cui il lettore dickiano si è abituato leggendo altre opere qui non risaltano particolarmente, pur essendo alla base della narrazione. Nonostante questo mi sento in dovere di smentire i pareri negativi (o comunque poco entusiasti); ho trovato il romanzo molto scorrevole, scritto con uno stile diretto ed efficace.
“I giocatori di Titano” narra di un futuro non troppo lontano in cui i terrestri, decimati e ridotti all’impotenza a causa di radiazioni nucleari, si trovano in una fase di pace apparente con i Titaniani. Questi, i vug, amorfe amebe gelatinose e telepatiche, hanno importato sulla terra il gioco del Bluff, un misto tra monopoli e poker, gioco in cui i partecipanti (detti Vincolati) scommettono soldi e proprietà reali. Nel corso della storia i protagonisti si trovano invischiati in una cospirazione che coinvolge frange estremiste titaniane ed esseri umani dotati di capacità telepatiche e di preveggenza. L’intera vicenda convergerà nell’ovvio finale in cui gli esseri umani si contendono il futuro del pianeta contro i giocatori di Titano.

Psichedelia: come già accennato anche in questo romanzo la psichedelia è un elemento fondante. Il protagonista, Peter Garden, soffre di crisi depressive e ricorre di continuo a pillole e pasticche per riprendersi, spesso mischiandole all’alcool. Saranno questi mix, pericolosamente letali, ad offrirgli potenziali chiavi di lettura ai misteriosi avvenimenti. Chiavi di lettura ovviamente distorte, che lasciano sempre un (ampio) margine di dubbio, i confini del reale cedono. Non si tratta di estremismi in stile “Le tre stimmate di Palmer Eldritch” ed anche il finale è sostanzialmente univoco. Ma i passaggi deliranti di visioni lisergiche, in cui i concetti di spazio e di tempo vengono meno, sono degni del più grande Dick.

Stile: Dick scrive bene, non ci sono dubbi. Non è uno scrittore di fantascienza “classica”, non è alla ricerca del sense of wonder tramite descrizioni meravigliose di pianeti o razze aliene. Dick punta ad altro, vuole rendere terribilmente fantastico il suo mondo visionario terrorizzando e spiazzando il lettore, abbattendo i punti di riferimento e disorientando, stordendo. Ambienta le sue storie sulla Terra, in particolare negli Stati Uniti. Una Terra non molto diversa del nostro presente, fatta qualche eccezione. Per questo non si sofferma sull’ambientazione o sulle tecnologie, ma veicola il racconto verso altri elementi. In un attimo riusciamo ad immergerci in un mondo verosimile, a fianco di personaggi rappresentati efficacemente e coerenti con il comportamento che ci viene delineato nel corso della narrazione. Ne “I giocatori di Titano” c’è tutto questo, fatta eccezione per alcuni personaggi (fondamentali) quali Joe Schilling e Mary Anne che alla fine della storia restano ancora abbastanza enigmatici. Mi aspettavo uno stile più acerbo e invece sono rimasto piacevolmente sorpreso.

Precognizione, telepatia: le capacità di preveggenza e di telepatia di cui sono dotati alcuni personaggi fanno oscillare costantemente l’intreccio. A volte crediamo di avere trovato la soluzione per poi vederla infranta, sostituita da un altro futuro possibile. Queste doti eccezionali contribuiscono a mantenere teso e imprevedibile quello che di fatto è una sorta di giallo in salsa fantascientifica. Non sempre vengono sfruttate al meglio, ma sostanzialmente alimentano l’efficacia narrativa. Senza considerare che vanno a fondersi con l’atmosfera allucinogena di cui si è già detto.

Alieni e giochi: i Titaniani, detti vug, sono alieni telepatici informi, simili ad amebe. I tratti semplicistici ed apparentemente bonaccioni ben si prestano al contesto, quello del gioco. Lo scontro si svolge sul campo di guerra del Bluff, ma non mancano i momenti più violenti in cui l’estremismo titaniano prende il sopravvento. L’importazione del Bluff relega gli esseri umani a uno stato di pace apparente, mentre in realtà il dominio extraterrestre è continuo e costante, ai danni degli esseri umani inermi, troppo presi a giocare. L’unico sensibile, o potenzialmente tale, è il protagonista Peter, tanto che soffre di depressione; alle radici di questa depressione c’è un qualcosa di poco chiaro, che si può riscontrare in un dubbio cosmico sulla realtà delle cose.

Guerra fredda: sullo sfondo emergono le preoccupazioni dell’America degli anni ’60, il terrore nucleare e l’astio verso sovietici e cinesi. I responsabili del disastro nucleare sono infatti i cinesi comunisti... o almeno così si è sempre pensato.

In definitiva si tratta di un buon romanzo, in cui l’intreccio si scioglie bene. Non è il migliore Dick, ma è una lettura godibile da non sottovalutare per i contenuti più "leggeri".

VOTO: 7,5

sabato 6 novembre 2010

Le città della mente

Le città della mente
Tempere di Karel Thole per i romanzi di Urania

(2010)
Catalogo



Ho comprato recentemente questo libro, una raccolta di diciannove illustrazioni (più alcune extra) del grande disegnatore olandese che ha contribuito a fare la fortuna di Urania. Il prezzo è un po’ troppo alto (15 euro!) ma mi sono tolto lo sfizio di avere in mano qualche illustrazione di Karel. È un’edizione limitata a 1000 copie, distribuite dalla casa d’aste “Little Nemo” in occasione del decennale della scomparsa dell’artista. L’asta era stata esposta dal 18 al 24 Marzo 2010 a Torino. La cosa più imbarazzante è che Urania non abbia minimamente commemorato la scomparsa di Thole, uno zero assoluto assolutamente vergognoso. Vergognoso quanto la notizia trapelata nell'ultimo periodo, riguardante la politica dei tagli applicata da Urania a danno dei romanzi. La casa editrice, da sempre considerata la numero uno in Italia, nonché pionieristica in quanto ha sdoganato la fantascienza nel Bel Paese, ha tranquillamente confermato quelle che erano solo voci di corridoio. I tagli, nell’epoca pre-Lippi, erano all’ordine del giorno, tagli fatti alla bell’e meglio e decisamente abbondanti. Come un fiume in piena sono trapelate altre indiscrezioni, legate soprattutto ai metodi di traduzione, molto grossolani. La giustificazione della casa editrice è in sostanza che i romanzi di fantascienza sono semplice evasione e i lettori appassionati non sono esperti di letteratura (a detta loro ovviamente), quindi non hanno pretese e la bassa qualità è tollerabile! Si salva la serie dei classici, a quanto pare sono edizioni integrali. In definitiva una gran porcata, ho circa 250 numeri Urania, la maggior parte degli anni 70 e 80, di cui solo una cinquantina sono “classici”. Credo che gli altri non li leggerò mai.


(Agonia della terra - Edmond Hamilton)

Tornando al libro in questione devo dire che le illustrazioni non sono proprio le migliori (un paio direi anche bruttine), ma siamo comunque di fronte ad un grandissimo artista, estremamente visionario e dal tratto psichedelico e ironico. Anche quando le immagini non sono strettamente fantascientifiche Thole riesce lo stesso a stupire. Sarebbe stupendo se venissero pubblicate tutte le tempere, considerata anche la massiccia produzione. On-line è molto difficile trovare immagini di buona qualità (quelle qui allegate sono sbiadite e piccole, non si trova di meglio purtroppo).
Se volete un ricordo del leggendario Thole l’acquisto è consigliato.


(Su e giù per il tempospazio - John Wyndham)



(La città del lontanissimo futuro - M. John Harrison)