sabato 28 agosto 2010

You are the ruler of this realm of flesh

Sei tu che governi questo reame di carne,
E questa montagna d'osso e di capelli
Viene al Maometto della tua mano
Ma questa terra esala un tanfo d'ossario,
E il vento ha il sentore dei poveri morti
Che le fosse ospitano e occultano.

Tu regoli i tonfi del cuore che mordono il fianco;
Il cuore segue il dito della morte;
Il cervello agisce conforme ai morti legali.
Perchè pensare alla morte se sei tu che governi?

Sei tu che governi la mia carne e che tradisco
Alloggiando la morte nel tuo regno,
Prestando orecchio alla voce assetata.
Condannami a un eterno faccia a faccia
Con gli occhi morti dei bambini
E i loro fiumi di sangue diventati di ghiaccio.

(DYLAN THOMAS)

giovedì 26 agosto 2010

The Descent

The Descent
Horror
(2005)



I soliti annunci eclatanti, sempre esagerati per ovvii motivi pubblicitari, a volte sono davvero esasperanti. Quasi ti fanno partire prevenuto nei confronti di un film. The Descent è stato considerato uno dei film più terrificanti di sempre e via dicendo. Niente di tutto questo, è un buon horror che ci regala diversi momenti di tensione. Un gruppo di amiche in stile donnavventura si ritrova dopo anni per esplorare delle grotte in America, tra i Monti Appalachi. Una di loro, bramosa d’avventura, conduce il gruppo verso altre grotte, ancora inesplorate, dove ovviamente la comitiva si perde dopo essere stata intrappolata da una frana. Cercano un’uscita e dopo un po’ di tempo che si muovono alla cieca si imbattono in qualcosa. Un qualcosa dalle sembianze umane ma mostruosamente deformate e soprattutto bramoso di sangue. Il gruppo si divide, c’è chi fugge da una parte e chi dall’altra, mentre poco per volta vengono scannate e sbranate. A rendere emozionante e tesa la pellicola è in primis l’ambientazione, grotte buie e tetre sconosciute anche alle protagoniste, in secondo luogo la trovata di sfruttare alcuni espedienti come l’infrarosso e la cecità delle bestie. L’infrarosso della telecamera (e di alcuni flare verdastri che creano un effetto analogo) permette allo spettatore di immedesimarsi soggettivamente e di sentirsi braccato quanto le protagoniste, mentre (l’ovvia?) cecità delle creature sotterranee implica tentativi di fuga silenziosi e lenti, spesso aggirando a distanze minime i mostri carnivori. Sono questi i momenti più tesi che quasi fanno trattenere il respiro, sperando fino all’ultimo che la poveretta di turno la scampi. Il sangue scorre abbastanza copiosamente, assistiamo anche a diversi momenti macabri e particolarmente truci, dal sapore cannibalistico.
Un buon film horror sicuramente superiore alla norma, ma altrettanto sicuramente non siamo di fronte ad un capolavoro.

VOTO: 7

Vendicami

Vendicami
Noir
(2009)



Prima di tutto una cosa: è assurdo avere nel raggio di 20 minuti 6/7 cinema e neanche uno che abbia avuto in programmazione Vendicami. Zero assoluto. Veramente scandaloso, ma forse dovrei già meravigliarmi che sia stato proiettato in qualche sala italiana. Il nuovo noir di Johnnie To si prospetta come la classica storia di vendetta tormentata, una famiglia massacrata dalla mala di Hong Kong per motivi ignoti. Il padre della donna, l’unica superstite, arriva dalla Francia per trovare i carnefici e fargliela pagare. Lui è Costello, un cuoco (Johnny Hallyday), o almeno così dice. Riesce ad assoldare tre killer professionisti e li incarica di eliminare gli assassini della moglie. I tre sono i soliti protagonisti delle ultime produzioni del regista cinese: Lam Suet, Anthony Wong e Lam Ka Tung. Degli assassini abilissimi ma con una forte vena scherzosa e bonaria, che alla fine si ritrovano sempre soli contro tutti, ribelli anche contro i propri padroni. È in loro che si incarna e traspare la vena ironica in grado di smorzare i toni troppo seriosi, costruiti sullo sfondo di truculente stragi in cui nessuno, bambini compresi, ne esce vivo. Vendicami, a differenza degli ultimi lavori di To non risulta pienamente coinvolgente, complice una durata forse leggermente eccessiva ed alcuni tempi morti. Inoltre mancano le scene travolgenti, le sparatorie armoniose e danzanti tipiche dei precedenti film, in grado di elettrizzare lo spettatore lasciandolo a bocca aperta. È necessario uno stile notevole per rendere così interessanti dei comunissimi scontri a fuoco, e Jonnhie To è sempre stato decisamente abile nel renderli unici. I nemici cadono come mosche, ma anche i nostri vengono feriti (altro elemento ridondante) e si rimettono in pista dopo essersi curati con le proprie mani. Anche il “cuoco” Costello si rivelerà un abile pistolero, forse perché anche lui lavorava nello stesso ramo dei suoi nuovi compagni. Ma durante i bei tempi andati si era beccato anche una pallottola nel cranio, che se ne sta ancora lì e rischia di fargli perdere la memoria. La corsa verso la vendetta si fa sempre più tesa e inesorabile.
L’atmosfera umida e fumosa della città accresce il pathos, siamo di fronte ad una componente classica del noir ma che si rivela sempre efficace nella sua semplicità. Anche la colonna sonora malinconica intensifica il sopraggiungere di una fine ingloriosa e inevitabile, verso la quale ci si precipita con noncuranza, pronti ad accogliere la morte a braccia aperte. Un film inferiore ai precedenti ma comunque valido, che ci conferma ancora lo stile di To: piogge di piombo, duelli in stile western, premesse di ingiustizie urlanti che devono essere placate, trionfo nel bagno di sangue.

VOTO: 7+

martedì 24 agosto 2010

Fratello, dove sei?

Fratello, dove sei?
Commedia / Avventura
(2000)



Piacevole commedia avventurosa diretta da Joel Coen, assistito dal fratello. Liberamente ispirato all’Odissea, Fratello, dove sei? non è un nuovo “Ulisse” joyciano, niente di così trascendentale e intricato. I generici rimandi all’Odissea vengono modernizzati nell’America (Mississippi per la precisione) degli anni trenta. Tre galeotti evadono e si dirigono alla ricerca di un tesoro sepolto da uno dei tre (Clooney), in una zona che a breve verrà inondata da una diga. La ricerca si staglia sullo sfondo di un America razzista e becera, in un ambiente ancora in buona parte rurale caratterizzato dalla classica figura del contadino sudista ignorantissimo e grezzo, oppure dal cittadino medio borghese, sostanzialmente identico al suddetto contadino e diverso solo nelle apparenze. Durante il viaggio i tre, accompagnati da un chitarrista nero, incidono una canzone per guadagnare qualche soldo, canzone che a loro insaputa diventerà un tormentone e che consentirà loro di redimersi a tempo debito. La colonna sonora è ovviamente country con qualche sprazzo blues e folk, fondamentale per immedesimare lo spettatore nel contesto popolare. I tre protagonisti sono due villani e un erudito, l’Omero-Clooney, che riesce ad essere abbastanza simpatico nonostante la solita spacconeria. Una commedia carina capace di strappare numerosi sorrisi, soprattutto grazie alla componente musicale e all’atmosfera rustica.

VOTO: 7

Romanzo Popolare

Romanzo Popolare
Commedia all'italiana
(1974)



Forse la più bella commedia italiana degli anni ’70. Forse la più grande commedia italiana di sempre. Ancora una volta Monicelli realizza un film stupendo, complice il grande cast che vede i due giovani Michele Placido e Ornella Muti affiancati dall’inarrivabile Tognazzi. La Milano popolare degli anni ’70, la fabbrica, la lotta politica. Tognazzi è Giulio, operaio sindacalista carismatico caratterizzato da una parlantina fluida che mischia politichese e milanese. Si innamora di Vincenzina (Ornella Muti), meridionale e appena maggiorenne, e si sposano. Placido è Giovanni Pizzullo, un meridionale trasferitosi a Milano per lavorare come poliziotto; alla sua prima esperienza durante una manifestazione operaia (dove Giulio gestisce il servizio d’ordine) viene colpito in pieno cranio da un oggetto di ferro lanciato dai manifestanti. Individua il colpevole, Salvatore, amico e vicino di casa di Giulio, e decide di andarlo a prendere a casa. Salvatore verrà difeso da Giulio che sfoggia un monologo da pelle d’oca e bastona il povero poliziotto (“Vuoi fare l’eroe in divisa? Vogliamo diventare il milite ignoto? E allora ti cucchi il manufatto come incidente sul lavoro!”). In seguito Salvatore si riappacificherà con Giovanni e lo inviterà alle serate tra amici a casa di Giulio. Qui Giovanni conoscerà Vincenzina e se ne innamorerà. Entrambi giovani, entrambi meridionali; scatta qualcosa e Giulio lo scoprirà lentamente, durante una sorta di interrogatorio in crescendo che lo porterà ad una (grottesca) esasperazione. È una storia d’amori traditi sullo sfondo di una Milano grigia e brumosa; le giornate di lavoro in fabbrica, le domeniche allo stadio a tifare Milan, le serate con gli amici. La Milano popolare, quella bassa ma genuina, vitale, schiacciata da una quotidianità insoddisfacente e deludente ma dalla quale si cerca sempre di uscirne, in un modo o nell’altro. Non è una commedia spensierata, Monicelli infonde il suo solito tocco malinconico che pervade ogni cosa, si insinua poco alla volta e resta lì fino alla fine. Il finale è potenzialmente felice ma allo stesso tempo nostalgico, le cose sarebbero potute andare meglio. Sempre in linea con le illusioni politiche (e non) degli anni ’70, utopici desideri flebili ed evanescenti. Ultima ma non meno importante la colonna sonora, il motivo principale e costantemente ricorrente è stato scritto apposta per il film da Enzo Jannacci: “Vincenzina e la fabbrica”. Toccante, triste, disillusa. Come ogni romanzo popolare.

“Vincenzina davanti alla fabbrica,
Vincenzina vuol bene alla fabbrica,
e non sa che la vita giù in fabbrica
non c'è,
se c'è com'è ?”


VOTO: 8,5

lunedì 23 agosto 2010

Pandorum

Pandorum
Fantascienza / Horror
(2009)



Spulciando le recensioni in rete Pandorum è stato stroncato un po’ ovunque o salvato per un pelo (fatta eccezione per Splattercontainer). Il motivo principale è legato alle “citazioni” onnipresenti che (così si vuol fare intendere) sforano nel plagio, tutto sa di già visto. Il discorso in merito sarebbe fin troppo lungo e rischierebbe di scadere spesso in considerazioni soggettive e troppo relative. Fatto sta che siamo di fronte ad una pellicola che non pretende nulla, non mira a stravolgere né a creare qualcosa di nuovo. È semplicemente un buon film di fantascienza orrorifica, capace di coinvolgere lo spettatore senza bisogno di strafare. Provando a considerarlo, come hanno fatto un po’ tutti, in rapporto ad altri film a cui è ispirato direi che si tratta di un incrocio tra "Solaris" e "Sfera" con una bella spruzzata di "Alien". All’horror psicologico si unisce quello più concreto, una minaccia aliena spietata che incombe sui malcapitati protagonisti. Al risveglio dall’iper-sonno due membri dell’equipaggio non ricordano nulla, la nave pare morta e non c’è anima viva. Il capitano resta nella sala-comando, mentre l’ingegnere decide di avviarsi tramite cunicoli verso il cuore della nave, per far ripartire il reattore. Ovviamente non sono soli. Il punto di forza del film sta nell’ambientazione, che come già detto ricorda molto Alien, una nave tetra e buia abitata da abominevoli umanoidi sanguinari. Il senso di terrore, la sensazione di essere sempre braccati e quindi costretti a muoversi silenziosamente generano una tensione costante che esplode nei momenti d’azione, tamarri ma non troppo ed abbastanza cruenti. Si è già paragonato gli “alieni” alle bestie di “The Descent”, io aggiungo che mi hanno ricordato anche i mostri di “Fantasmi da Marte” di Carpenter. La trama si evolve in due direzioni, da una parte lo scontro con gli alieni, dall’altra i deliri psicotici del capitano, isolato nella sua sala. Insomma, c’è un po’ di tutto ed è facile ritenere Pandorum un’ accozzaglia di luoghi comuni e plagi ma di fatto si nota uno sforzo abbastanza efficace nella ricostruzione scenografica e nella realizzazione di un’atmosfera claustrofobica. Il problema è sempre tracciare il limite, rendersi conto di quali sono le pretese di un film e che in questi casi il come è molto più importante del cosa, non importa se è la solita storia trita e ritrita, importa che sia ben realizzata e che sia capace di intrattenere per un paio d’ore. Niente di più, niente di meno.

VOTO: 7

lunedì 16 agosto 2010

Elephant

Elephant
Drammatico
(2003)



Se ne è già parlato in svariate salse del tristemente famoso massacro della Columbine, avvenuto nel 1999. Non che in Italia ne sia giunta un’eco particolarmente rilevante, ma ovviamente in America l’impatto è stato molto più devastante. I due ragazzi responsabili della strage sono stati etichettati come “strani, “diversi”, “asociali” e via dicendo, appassionati di musica estrema, di videogiochi violenti e filo-nazisti. Insomma, il solito classico, adolescenti che compiono gesti estremi e che di conseguenza sono deviati. I motivi sono da ricercare non nei limitati o inesistenti rapporti umani e nel grigiore quotidiano ma in gruppi musicali depravati, videogiochi sanguinari e chi più ne ha più ne metta, la solita sfilza di luoghi comuni in grado di terrorizzare il cittadino medio. In Italia abbiamo avuto un caso analogo ma meno cruento, quello delle “Bestie di Satana”: ragazzi(ni) indemoniati che organizzavano riti in onore del Signore delle Tenebre, fino a quando non ci scappa il morto. Anzi, più di uno si scoprirà in seguito. A dirla tutta in seguito si scopriranno anche i retroscena della vita quotidiana delle bestie; famiglie praticamente inesistenti, problemi psichici, abuso di droghe. Ma è più comodo incolpare il black metal e il satanismo, figuriamoci in uno stato come quello italiano, bigotto all’inverosimile, cristiano-cattolico e nemico del diverso, imborghesito fino al midollo. Pseudo-tradizionalismo cialtrone e culturame che si incontrano in un unico calderone, forse la peggior cosa che si possa trovare in circolazione.
Il titolo del film allude ad un modo di dire, avere un elefante nella stanza, cioè un problema enorme e davanti agli occhi di tutti ma di cui nessuno vuol parlare. Van Sant cerca appunto di ricostruire i motivi reali scatenanti la strage, purtroppo girandoci troppo intorno senza colpire duro. I due carnefici sono delineati in maniera un po’ imprecisa e frettolosa (uno dei due tra l’altro entra in scena solo nel finale). Le cause vengono individuate, come già detto, in problemi concreti e quotidiani: famiglia assente, professori incapaci di contatto con gli alunni, bullismo. Di pari passo ci vengono presentati anche gli altri motivi, quelli condannati e che in realtà sono solo una facciata, come i videogiochi o la “passione” per il nazismo (che qui non è altro che un documentario visto per puro caso dai due). Anche gli altri personaggi del film sono introdotti uno alla volta e per alcuni viene delineata una situazione più o meno infelice: padre alcolizzato, anoressia, emarginazione. Pure stavolta il tentativo di inserire una serie di problemi del mondo adolescenziale è eccessivamente rapido e purtroppo si rivela grossolano e sbrigativo. A risollevare il tutto contribuisce un ottimo stile, molto cupo, a momenti quasi amatoriale. Particolare l’uso costante della focalizzazione, i personaggi vengono spesso ripresi (solitamente di spalle) mettendo fuori fuoco tutto ciò che li circonda, creando un senso di isolamento e di incomunicabilità costanti. Tutto si svolge nel giro di circa un’ora o poco più, durante la quale i numerosi protagonisti subentrano man mano; il tempo continua a tornare indietro di una manciata di minuti descrivendo brevemente i ragazzi, per poi ritornare a pochi minuti prima della strage. Ininterrottamente indietro e avanti accumulando frammenti di vita. Ad inizio film, così come a metà e alla fine, viene ripreso per alcuni minuti un cielo verdastro, in procinto di oscurarsi. La tempesta viene annunciata, generando un’atmosfera tetramente premonitrice che si scatena nel finale. Molto buona anche la recitazione, nonostante la giovane età degli attori.
In sostanza siamo di fronte ad un titolo troppo pretenzioso e con grosse lacune nei contenuti, ma comunque ben realizzato e discretamente interessante.

VOTO: 7-

Cella 211

Cella 211
Drammatico
(2010)



Juan, un secondino appena assunto, si ritrova nel bel mezzo di una rivolta. Tramortito, viene lasciato in una cella, la 211; quando si rende conto di quello che sta accadendo fa in tempo a sbarazzarsi di portafoglio, stringhe e cintura fingendo di essere un nuovo carcerato. Viene messo alla prova dai nuovi compagni, guidati dal leader indiscusso Malamadre (Luis Tosar). Grazie ai nervi saldi ed una buona faccia tosta riesce subito ad accattivarsi la fiducia del capo branco. Juan si districa in un costante doppiogiochismo assecondando da una parte i carcerati, dall’atra i suoi superiori. Si offre un negoziato alle autorità: in cambio di migliori condizioni nelle carceri verranno liberati gli ostaggi, tre terroristi dell’ETA, di notevole utilità politica. La situazione si complica quando i telegiornali diffondono la notizia della rivolta e di un poliziotto morto durante gli scontri. Attorno al carcere si accalcano i parenti che vogliono essere messi al corrente della condizione dei propri famigliari. Per disperdere la folla i poliziotti fanno uso sfrenato del manganello, fino a colpire a morte la moglie (gravida) di Juan. Da questo momento la vita di Juan verrà stravolta.
Siamo di fronte ad una pellicola interessante e con contenuti attualissimi; purtroppo il bersaglio viene colpito solo di striscio. A lasciare l’amaro in bocca sono in primis alcuni snodi principali della trama, poco sensati e decisamente forzati. Quando Juan si mette in contatto con i suoi superiori per trattare, fingendosi un prigioniero, sono utilizzati toni decisamente troppo confidenziali, è evidente che si conoscono tra loro. Ma gli altri prigionieri pare non si accorgano di nulla. Mah. Inoltre la morte della moglie di Juan è troppo inverosimile, guarda caso lei ha la sensazione che a suo marito sia successo qualcosa, si dirige al carcere e viene colpita a morte dal poliziotto più odiato della galera. Tutto è filmato da meno di un metro di distanza senza che la telecamera sia distrutta o sequestrata, perché ovviamente il video verrà fatto vedere a Juan. Siamo di fronte ad un controsenso evidente: un poliziotto che dà fuori di matto senza il minimo motivo, giusto per diventare un infame agli occhi dello spettatore, ma che non fa niente se viene ripreso in pieno volto. Un doppio espediente (morte della moglie + video incriminato) elaborato malissimo. Come se fosse difficile rendere bastardo un poliziotto. Si tratta di un punto focale che viene trattato in maniera troppo sbrigativa e illogica. Altra pecca è la caratterizzazione dei personaggi principali: Juan appare decisamente freddo, distaccato, monocorde, mentre Malamadre pur personificando molto bene il carcerato spaccone ed ignorante in diversi passaggi sembra goffo, impacciato. Tutto scorre abbastanza velocemente, ai momenti diplomatici si alternano quelli d’azione, vengono a galla lentamente inimicizie interne sia tra i prigionieri che tra i superiori. Ogni cosa è il riflesso di un problema più ampio e complesso, quello della situazione nelle carceri e del rapporto con le istituzioni. Affiora nel finale una riflessione sulla natura umana e di quanto un uomo sia capace di mutare a seconda della situazione in cui si trova.
Una buona occasione mancata, c’è un argomento di fondo e viene veicolato, ma è veicolato troppo caoticamente e grossolanamente. Un argomento molto serio che andrebbe trattato più spesso, considerando soprattutto quella che è la distorta opinione comune riguardo le carceri, in una società sempre più amica di sbarre, muri e manganelli.

“Di respirare la stessa aria
dei secondini non ci va…”


VOTO: 7-

venerdì 13 agosto 2010

Agalloch - Ashes Against the Grain

Agalloch - Ashes Against the Grain
Black Metal / Dark Ambient
(2008)



Terzo album di uno dei più interessanti gruppi degli ultimi dieci anni. Questa band dell'Oregon non inventa nulla, intendiamoci, ma crea un perfetto connubio tra una base black/dark ambient, sprazzi doom e intermezzi acustici/folk da brividi. Un'emozione in coda all'altra, intimi, introspettivi, atmosferici, glaciali. E quest'album ne è la conferma definitiva. Gli intermezzi acustici vengono meno, si lascia più spazio all'elettrica che in ogni traccia crea melodie sempre più suggestive, in grado di intrecciarsi l'una all'altra in un crescendo gelido ma al tempo stesso carico di emozioni, di calore. Si raggiunge il top nel trittico "Falling snow", "Fire above, ice below" e "Not unlike the waves". La prima, guidata da uno screaming non propriamente black, lascia puro spazio all'immaginazione, soprattuto grazie al fantastico lavoro di chitarra che crea un tessuto sonoro sempre più elaborato ed incalzante, pare di assistere alla caduta di neve cristallina che malinconicamente ricopre ogni lembo di terra. In "Fire above, ice Below" siamo dinnanzi ad una sorta di ballad letteralmente glaciale (sì, glaciale ricorre un po' troppo spesso come aggettivo ma non avrei altre parole per descrivere quest'album), che nel ritornello sfocia nel binomio (in antitesi) citato dal titolo, un fuoco così vivo che scioglie la cortina di ghiaccio. "Not unlike the waves" inizia con l'infrangersi delle onde sulla spiaggia, in una nebbiosa giornata invernale, subentrano gli arpeggi, subentra il distorto, subentra la voce e si sogna ad occhi aperti, atmosfera ed introspezione si amalgamano crescendo in ogni singolo istante, la tanta blasonata sensazione di gelo trova qui l'apice al grido di "Solstafir!". Ho delineato i tre momenti essenziali di questo album ma non che gli altri siano da meno, ogni traccia si incastra nella successiva ed ha radici nella precedente, consiglio l'ascolto in giornate invernali, quando l'atmosfera generata puo' essere resa molto più efficacemente e il connubio visivo-uditivo trova l'apice.
"White as the falling snow, black as our citadels burned against the sky"

VOTO: 8

Tracklist:
1. Limbs
2. Falling Snow
3. This White Mountain On Which You Will Die
4. Fire Above, Ice Below
5. Not Unlike the Waves
6. Our Fortress Is Burning... I
7. Our Fortress Is Burning... II - Bloodbirds
8. Our Fortress Is Burning... III - The Grain

Spite Extreme Wing - Vltra

Spite Extreme Wing - Vltra
Black Metal
(2008)



Non ho mai considerato Argento un genio, a differenza di molti che ritengono un capolavoro “Non Dvcor Dvco”, rintronati probabilmente dai testi evolan-mistico-decadenti. Buon album per carità, ma tralasciando un attimo il fattore testi, i suoni troppo cacofonici (e pure qui, divenne kvltissimo perchè registrato nel forte Geremia a Genova) e una certa monotonia dei pezzi lo rendono a mio parere troppo acerbo. Zì zì, belo belo, è biù blegmedol! diranno molti, peccato che nel 2004 sentire un album registrato ancora come Panzerfaust non ha molto senso. Anche “Magnificat” era un buon album, forse pure migliore di NDD, con “Kosmokrator” si raggiungono livelli decisamente interessanti. “VLTRA”. Siamo veramente oltre. Innanzitutto è registrato come si deve, produzione pulita, chitarra in rilievo, basso e batteria che spingono per bene senza sovrastare tutto, screaming tipico di Argento (quasi recitativo) ed inserti corali che fanno da cornice. In secondo luogo siamo davanti a componimenti veramente interessanti, ben congegnati, pensati e ragionati come si deve, si alternano pezzi più o meno lunghi ad altri più brevi e furiosi, sono canzoni destinate a durare. L’intro ("I") ci fa già intuire che le sonorità sono diverse (maggiori melodie, inserzioni di cori – mai messi in primo piano, spesso quasi soffusi e incastonati nell’organico-), passando a “II” è chiaro che Argento ha abbandonato gli stilemi passati e si è avvicinato al suono proposto dai compaesani Janvs. Senza andare a scandagliare l’album track-by-track posso tranquillamente affermare che si viaggia su livelli decisamente alti, non saprei trovare un pezzo svigorito, tra tutti spiccano “II”, “IV” (un minuto e quattordici secondi di epicità pura, una sfuriata quasi hardcore celebrante le gesta degli arditi in trincea, che trova respiro in un improvviso boato per poi infrangersi nuovamente nel fragore dello scontro) e “V”. In definitiva è una rivelazione (almeno per me), che trova il suo punto di forza nell’epicità trapelante, nelle melodie (mai troppo marcate) e nella varietà. Assieme agli Janvs introducono un nuovo modo di suonare black che differenzia il suono made in Italy, personale ed originale.
"Eroe olimpico sospeso tra caos e dèi, riportami alla casa dei padri tra i proci grassi e rei! Vita somnium est! Oltre! Vltra!"

Tracklist:

1. I
2. II
3. III
4. IV
5. V
6. VI
7. VII
8. VIII
9. IX
10. X (Helter Skelter - Beatles)


VOTO: 7+

The Misfits - Walk Among Us

The Misfits - Walk Among Us
Hardcore / Horror Punk
(1982)



Sono spudoratamente di parte, i Misfits, anzi i THE Misfits, quelli veri, quelli con quel genio di Danzig alla voce sono tra i miei gruppi preferiti di sempre. Questo album, il loro primo full-lenght, segna un confine, un nuovo inizio per quelle che poi saranno alcune tra le sonorità più estreme nella storia della musica, l'hardcore e il thrash. Seppur a livello ancora abbastanza embrionale questo è un album hc, forse il primo o comunque uno dei primi, che andrà ad influenzare artisti del calibro di Metallica, Slayer, Sepultura, Negazione, Discharge e chi più ne ha più ne metta, insomma tutta la futura scena hc e thrash.
Chi si è già avvicinato alla scena hardcore, soprattutto quella attuale, molto più potente e tecnica rispetto a quella old school, storcerà il naso vedendo etichettato questo album come hc, anche io non lo considero un album hardcore al 100% (a differenza di "Earth A.D./Wolfsblood") ma lo ritengo una pietra miliare di una sonorità che si puo' definire di transizione tra il classico punk '77 e la nascente musica hc.
Ma non credo sia così fondamentale etichettare il genere, l'importante è che si riconosca l'importanza storica di questo straordinario gruppo, fondamentale a dire poco.
Perchè adoro così tanto i Misfits? Perchè adoro la voce di Glen ("l'Elvis del punk", prendetela con le pinze e anche con un po' di ironia, mi raccomando), perchè adoro quei primi anni '80 e la scena punk-hc che andava formandosi, perchè adoro il cinema horror e di conseguenza il loro modo ironico di sfruttarlo (a livello estetico-tematico sono definiti horror-punk) e infine adoro quella sensazione che riescono a darmi, una sensazione che non riesco a spiegare, un miscuglio di ciò che ho appena elencato, un vortice che ti trascina in un immaginario orrorifico che sa di perduto.
Ogni canzone di questo album è un classico, inutile commentarle una per una, sonorità semplici(fondamentalmente pochi power-chord in stile Ramones), veloci e personali, tra tutti i pezzi spiccano gli ultra-classici "Hatebreeders", "Night of the living dead", "Skulls" e l'immortale "Astro Zombies".

"...with just a touch of my burning hand
i'm gonna live my life to to destroy your world
prime directive, exterminate the whole fuckin' race
then your face drops in a pile of flesh
and then your heart, heart pounds and it pumps in death
prime directive, exterminate the whole fuckin' place..."

Tracklist:

01)20 eyes
02)I turned into a martian
03)All hell breaks loose
04)Vampira
05)Nike a go go
06)Hatebreeders
07)Mommy can I go out & kill tonight (live)
08)Night of the living dead
09)Skulls
10)Violent world
11)Devils whorehouse
12)Astro zombies
13)Braineaters

giovedì 12 agosto 2010

Amici Miei

Amici Miei
Commedia all'italiana
(1975)



Questa è Commedia, la vera commedia italiana. Genuina, nostrana, recitata alla grande, volgare quanto basta e solo quando serve. Capace di divertire grazie allo strabiliante magnetismo dei personaggi, in grado di far riflettere senza cadere nel retorico o nel noioso. Ovviamente siamo di fronte ad un cast d’eccezione: Del Prete, Noiret, Moschin, Celi e l’intramontabile Tognazzi. I cinque amici che a cinquant’anni suonati ancora si divertono come ragazzini. Non credo ci sia bisogno di raccontare la trama o di focalizzarsi sulle scene più esilaranti (chi non ha mai visto la scena del treno, in cui i malcapitati viaggiatori in partenza con la testa fuori dal finestrino vengono schiaffeggiati al volo uno dietro l’altro? Chi non conosce la supercazzola?). Giusto per fare un quadro della situazione, i quattro (il quinto, “il Sassaroli” si aggiungerà durante il film) sono soliti ritrovarsi ogni tanto per le loro “zingarate”, un periodo più o meno lungo in cui staccano la spina e se ne vanno a zonzo burlandosi di tutti quelli che gli capitano a tiro. È “il Perozzi” la voce narrante che ci introduce nella storia, convocando il gruppo perché stanco della solita routine. Uno per volta ogni personaggio viene presentato. Ne risulta una descrizione completa dei protagonisti, con i quali si condivide immediatamente il fare goliardico e la sfrontatezza. Un gruppo unito, nel bene e nel male, che rivendica costantemente l’amicizia, su cui si può sempre contare anche quando non è rimasto più niente a cui attaccarsi. Ma non è solo il valore dell’amicizia ad essere al centro del film, ma anche e soprattutto l’importanza dell’ironia, il suo ruolo fondamentale nella vita. È l’ironia che ci permette di sopravvivere nella quotidianità grigia e monotona che lentamente ci divora e ci condanna all’atavismo. Ed è con l’ironia che si può affrontare ogni situazione, anche la più dolorosa. Nel rapporto tra Perozzi e suo figlio è evidentissimo il contrasto di personalità: il primo allegro e spensierato che prende la vita come viene, il secondo ligio al dovere e perennemente serio, austero. Due mentalità agli antipodi che condannano il povero Perozzi ad essere una nullità e non venire rimpianto nemmeno in punto di morte se non da un pugno di persone, mentre al figlio spetteranno onori per i sacrifici compiuti in nome del dovere e della serietà professionale (e non). Una comicità con retrogusto drammatico, malinconico, in linea con le (dis)illusioni dell’Italia degli anni ’70. Il finale riassume l’essenza del film, momento drammatico che bastona le belle speranze e la spensieratezza ma che viene affrontato con ironia, quella che, citando Enrique Vila-Matas, è “la più alta forma di sincerità”.

VOTO: 8

mercoledì 11 agosto 2010

Evil Aliens

Evil Aliens
Horror / Splatter
(2005)



Splatter
del più ignorante e goliardico, chiaramente influenzato dal leggendario Bad Taste. Cast della malora, effetti speciali scarsissimi, trama ridicola. Nonostante questo si distacca da quel filone ultra-gore ormai noioso e ripetitivo, senza uno straccio di idea se non il (pio) desiderio di shockare lo spettatore. Nella sua totale idiozia Evil Aliens riesce a divertire senza risultare irritante, grazie ad alcuni personaggi ben costruiti e scene splatter interessanti. Su un'isola al largo del Galles si è verificato un caso di rapimento alieno e la troupe di uno show televisivo si fionda sul posto per documentare l’accaduto. La ragazza che ha assistito al rapimento ha tre fratelli, dei beceri contadini malconci e ripugnanti, che saranno i personaggi in grado di dare maggior spettacolo. Inutile dire che gli alieni ci sono davvero, e che sono molto aggressivi. Particolarmente esilaranti e dal sapore comico-epico alcune scene di combattimento con tanto di gioco di sguardi e sottofondo musicale da film western, indimenticabile la mietitrebbia falcia alieni. Inoltre la buona ambientazione brumosa contribuisce a creare un’atmosfera minacciosa e siderale. Insomma, se volete un po’ di splatter beceramente idiota siete serviti.

VOTO: 7

Alta Tensione

Alta tensione
Horror / Slasher
(2003)



Più spettacolare di “Seven”, più terrificante de “Il Silenzio degli Innocenti”. Forse un po’ troppo esagerato come slogan promozionale. Alta Tensione si muove sulla falsariga degli splatter anni ’70, una nuova ventata di vecchio omaggiato come si deve, ma che non dice niente di nuovo né vanta momenti particolarmente esaltanti. È un buon horror con scene gore ben realizzate, con tanto di fontanella che sparge emoglobina in ogni dove.
Due compagne di università, Marie ed Alex, raggiungono la casa in campagna di quest’ultima. La notte stessa un maniaco armato di rasoio si presenta alla porta con l’intenzione di far strage della famiglia. Da qui la trama si evolve in qualcosa di un po’ più complesso e articolato ma fondamentalmente siamo di fronte al classico slasher. Alex sarà l’unica della sua famiglia a non essere macellata ma verrà legata e caricata su un furgone, destinazione ignota. Marie riesce a nascondersi durante il massacro ed insegue il furgone per liberare l’amica. L’alta tensione consiste nel costante gioco tra l’assassino e Marie, che continua a nascondersi riuscendoci sempre per un pelo, fino all’ovvio momento finale, in cui saranno costretti a scontrarsi. Il film mantiene un buon livello di eccitazione ma una volta capito il meccanismo su cui è costruito l’angoscia viene meno, già sapendo che la protagonista la scamperà fino all’ultimo. C’è qualcosa di più dietro tutto questo, ma non lo racconto per non rovinare il finale. Si tratta di un buon espediente che sa comunque di già visto, soprattutto nel modo in cui viene rivelato allo spettatore (la solita dannata telecamera panopticoniana che mostra sempre la verità!). Particolarmente efficace l’uso dei colori accesi, che a tratti abbagliano, lasciando sospeso un alone surreale. Stesso dicasi per la colonna sonora, minimale e ripetitiva ma che vanta anche alcune hit, vedi la candida “New Born” dei Muse, che esplode in una cacofonia elettrica e la nostrana “Sarà perché ti amo” (!) dei Ricchi e Poveri. In definitiva un discreto film, che vale la sua ora e mezza di visione.

VOTO: 7

martedì 10 agosto 2010

Dark Waters

Dark Waters
Horror
(1994)



Come abbia fatto a passare totalmente inosservato un film del genere è un mistero. Non è un capolavoro, ma è un buon film horror con spunti interessanti e un’atmosfera malsana. Sicuramente è un prodotto molto più valido di tutta la spazzatura adolescenziale e ultra digitalizzata da cui siamo sommersi.
In questo Dark Waters la protagonista si reca su un’isola del Mar Nero, per scoprire cosa legasse la sua famiglia a quel luogo e per far luce su strani avvenimenti accaduti quando era ancora una bambina. In un convento dove le suore praticano uno strano culto vivrà a contatto con una realtà misteriosa e tenebrosa. La verità verrà a galla poco alla volta. A farla da padrona come già detto è l’atmosfera tetra; il clima perennemente uggioso, la pioggia, il convento diroccato e le grotte che richiamano molto la Midian di Barker.
Ovviamente il punto di riferimento principale è il maestro Argento ma Mariano Baino dimostra comunque un buon talento e uno stile personale abbastanza elaborato. La componente horror vecchio stile è evidentissima ma viene rielaborata e rinnovata caparbiamente, unendo lo stile più classico a quello di nuova generazione.
Da riscoprire!

VOTO: 7

Open Water

Open Water
Horror / Drammatico
(2003)



L’oceano, la “thalassa”, tutto quello che non è terra e che ricopre il 70% del nostro pianeta. Un altro mondo, in grado di evocare terrori ancestrali. Non sapere cosa abbiamo sotto i piedi, non riuscire a vedere più in là di qualche metro, trovarsi nel bel mezzo del nulla senza punti di riferimento. Un senso di agorafobia estremizzato dall’essere immersi in quello che non è il nostro habitat naturale. Affogare, essere divorati dagli squali, morire di ipotermia, morire di fame o di sete. Fondamentalmente essere scaraventati al largo della costa o sulla luna non fa troppa differenza.
Open Water cerca di fare leva su queste paure, un lento incedere verso la morte, senza speranza. Un coppia, per errore, viene dimenticata al largo dopo un’immersione. Nessuno si accorge dell’accaduto fino a quando sarà troppo tardi. I due protagonisti si scoprono totalmente impotenti; non sanno se aspettare aiuto o se provare a spostarsi nella speranza di prendere la direzione giusta, hanno fame e freddo, sentono la costante presenza degli squali. Il film, dal taglio quasi amatoriale, punta sulla lenta agonia e il senso di angoscia che cresce di minuto in minuto. Purtroppo le idee interessanti sono poche, la maggior parte delle scene sono abbastanza monotone e ripetitive e il senso di terrore esplode solo in pochi istanti. Ben congegnati i momenti di passaggio dal pomeriggio al tramonto e dalla sera alla notte, in grado di risollevare l’interesse dello spettatore. Qualche spunto più ispirato e una tecnica un poco più elaborata, in grado di accentuare le scene principali, avrebbero contribuito a rendere questo film decisamente più terrificante. Peccato, una buona idea di partenza sprecata.

VOTO: 6,5

Shogun Assassin

Shogun Assassin
Jidaigeki / Exploitation
(1980)



Film culto che ormai compie i suoi 30 anni, Shogun Assassin è un perenne punto di riferimento del cinema estremo orientale. Alla regia un americano, Robert Houston, nome praticamente sconosciuto se non per il suo ruolo di Bobby in “Le colline hanno gli occhi” di Craven. Il film è tratto dal manga “Lone Wolf and Cub”, pubblicato nel 1970, fumetto giapponese che tra il ’72 e il ‘74 ispirerà ben sei film di arti marziali. Il protagonista è sempre Tomisaburo Wakayama, celebre attore giapponese che vanta una filmografia sterminata e che sarà protagonista anche in Shogun Assassin.
La storia è quella di Ogami Ittō, il più grande e temuto samurai del regno, e del suo figlioletto. Siamo nel Giappone del XVII secolo; Ogami, boia personale dello Shogun, cade in disgrazia a causa di un complotto ordito nei suoi confronti. Sua moglie viene assassinata e si trova costretto a fuggire con suo figlio Diagoro, di soli tre anni. Lo svolgersi della trama si concentra fondamentalmente sugli scontri all’arma bianca che caratterizzano l’intera pellicola. Ad un'atmosfera solenne si va ad aggiungere il voluto eccesso, che sfocia nel goliardico e che stride con il clima vendicativo e serioso. Shogun Assassin è un “jidaigeki”, sottogenere storico ambientato in una specifica epoca giapponese, contaminato dall’onnipresente componente splatter / d’explotation. I combattimenti sono estremamente fantasiosi e violenti, i nemici vengono decapitati, smembrati, sgozzati e via dicendo, sempre con uno stile rapido e armonioso. Il nostro eroe Ogami combatte in piccole stanze, nei boschi, nel deserto, nell’acqua, para e colpisce, impala, trafigge i nemici lanciando la spada. Non c’è un momento di tregua, è uno scontro continuo molto coinvolgente, la spada di Ogami è sempre pronta alla difesa o all’attacco. Una spada liquida, per citare l’omonimo pezzo (e album) del rapper GZA. Un buon uso dei colori, che prendono il sopravvento soprattutto nel combattimento finale, e delle inquadrature contribuisce a creare quel senso di vedo-non vedo che pervade tutta la pellicola, creando un’atmosfera surreale e a tratti angosciante. Ad incorniciare il tutto un’interessante colonna sonora completamente elettronica, tesa e quasi morbosa.

VOTO: 7,5

domenica 8 agosto 2010

Shadow

Shadow
Horror
(2010)



Una leggera brezza di aria fresca anche da parte dell’horror italiano. Shadow, di Federico Zampaglione, mi ha colpito abbastanza positivamente, al contrario di quanto mi aspettavo. Un po’ la solita storia di torture farcita con una critica alla guerra (costruita alla bell’e meglio), per dare un tono almeno minimamente impegnato alla pellicola. A rendere interessante il film è l’elemento che personalmente reputo primario in un horror (e che ha reso "Suspiria" il più terrificante film di sempre): l’atmosfera. E Zampaglione lo sa. Grazie alle brumose foreste di Tarvisio (Friuli) e all’ipnotica colonna sonora riesce ad aggiudicarsi una buona parte dell’interesse dello spettatore. Menzione particolare per il mefistofelico Nuot Arquint, letteralmente angosciante ed in grado di risollevare con la sola presenza la seconda parte del film, quella prettamente legata alle sevizie. Niente di nuovo in sostanza, ma quel poco che viene fatto è fatto bene. Speriamo che in futuro migliori ancora.

VOTO: 7

Martyrs

Martyrs
Horror
(2008)



Grazie Francia per aver risollevato le sorti del cinema horror, negli ultimi anni decisamente moribondo e riciclato a più non posso. Da una parte horror-panettoni con gnocche di turno sventrate digitalmente, torrenti di emoglobina (e di silicone) computerizzati, dall’altra dei discreti tentativi privi di mordente. È con l’uscita di “Hostel” (2005) che si nota un rinnovato interesse verso quel tipo di exploitation fortemente cruda e praticamente fine a se stessa. “Torture porn”. La trama in sostanza è la solita: un gruppo di malcapitati finisce nelle mani di feroci e sadici aguzzini che torturano a morte i protagonisti, l’intero film si concentra sui momenti di violenza mettendone in luce la particolare efferatezza. “Frontiers”, film francese del 2007, rilancia gli stessi contenuti, leggermente rafforzati da una (abbastanza superficiale) condanna della xenofobia. Giovani scannati, appesi per dei ganci come maiali, sgozzati e via dicendo. Sempre dello stesso anno, e sempre francese, è il bellissimo e splatterissimo “À l'intérieur”, dove le tematiche sociali sono trattate decisamente meglio e con più gusto. Martyrs uscirà l’anno successivo, nel 2008. Solite critiche, solita censura, ma alla fine riuscirà ad essere proiettato nelle sale e a limitare i divieti.
Si tratta di un film molto ben congegnato che riesce a riunire una serie di elementi fortemente incisivi: deliri psicopatici e visionari, torture, autolesionismo, lucido e metodico sadismo, senso di impotenza che viene trasmesso anche allo spettatore, ultraviolenza. Dividerei il film in tre parti.

1. La prima parte, abbastanza breve (10/15 minuti), ci presenta le due protagoniste. Una bambina seviziata, Lucie, che riesce a fuggire dai torturatori, per poi finire in un orfanotrofio, dove conosce l’amica Anna. Lucie è tormentata, non riesce a spiegare cosa le sia successo né a denunciare chi siano i colpevoli. È assalita continuamente da incubi e da visioni malsane.

2. 15 anni dopo. Una villa fuori città. Una tranquilla domenica in famiglia, si discute durante la colazione. Din don, va il padre ad aprire. Viene accolto da una fucilata in pieno ventre, una ragazza con una doppietta più grande di lei gli da il buongiorno. Tutta vestita di nero, minuta, la testa coperta, pare cappuccetto rosso (nero). Entra in casa e tira una fucilata anche alla madre. Poi è il turno del figlio, appena diciottenne, e della figlia, una ragazzina. Una famiglia massacrata a colpi di doppietta. Corpi tormentati dalle fucilate, sangue ovunque sulle pareti bianche. L’agente Stansfield che va a trovare la famiglia di Mathilda. La scena ha lo stesso sapore crudo. Lucie ha ritrovato i suoi aguzzini e si è fatta giustizia. Almeno così dice lei. Anna la raggiunge e cerca di sistemare il carnaio che ha scatenato l’amica. Ma Lucie non è libera dai suoi incubi, Anna sembra non credere che tra quella famiglia ci fossero le stesse persone che avevano relegato l’amica in uno scantinato per chissà quanto tempo. E Lucie non riesce più a sopportare i suoi fantasmi, si squarcia prima i polsi, poi la gola.

3. Anna è da sola in questa villa. Scopre uno strano scantinato. Lucie aveva ragione. Trova una ragazza legata ad una sedia, incatenata. Nuda, scheletrica, martoriata. Si dimena, ha il volto coperto da una maschera di ferro, Anna la libera e le toglie la maschera (inchiodata nel cranio). Ma è aggressiva, si agita, colpisce Anna e mentre sono avvinghiate un colpo nel cranio stende la poveretta. Un gruppo di uomini armati fa irruzione nella villa. E porta Anna nello scantinato, dove inizia il suo supplizio.

Quello che si scopre nell’ultima mezz’ora non lo svelo al lettore, ho forse già detto anche troppo. Non è niente di trascendentale ma si tratta comunque di una soluzione molto ben costruita, capace di trasmettere un profondo senso di impotenza anche allo spettatore, in un susseguirsi di torture che culminano nell’apoteosi finale.
La forza di questo film è riuscire ad unire diverse componenti: una prettamente orrorifica, legata agli spettri ed alle sofferenze soprattutto autolesioniste di Lucie, un’altra quasi da thriller, che dal momento in cui Anna diviene la vittima assume toni cospirativi, si ha a che fare con una specie di loggia massonica che opera indisturbata. Le scene di violenza sono realizzate caparbiamente, trasmettono una forte angoscia, le tinte prima più cupe e poi più asettiche contribuiscono ad accrescere la tensione ed il senso di malessere. Ad incorniciare tutto un’ottima colonna sonora che offre all’intera pellicola un retrogusto agrodolce. Sadismo clinico, razionale, lucido. Il peggiore.
“Saprebbe immaginare cosa c’è dopo la morte?”

VOTO: 8,5

venerdì 6 agosto 2010

Ianva - L'Occidente

Ianva - L'occidente
Neofolk
(2007)



Ottimo EP dei nostrani Ianva, nome di spicco della scena neofolk tricolore. Se il precedente “Disobbedisco!” soffriva di alcuni passaggi forzati, tempi morti e momenti scialbi (ma parliamo sempre di un album valido) questo “L’Occidente” appare come rinforzato, rinvigorito. I suoni si fanno più composti, il muro melodico è decisamente più presente e meglio costruito: chitarre acustiche, violino, oboe, violoncello, pianoforte, trombone, fisarmonica e altro ancora si impastano armoniosamente, creano un muro solido. Solo quattro i pezzi che compongono questo EP, ma di alta caratura. “L’Occidente” spalanca sontuosamente le porte dell’Europa, per poi ricadere in un lamento decadente, “Santa Luce dei Macelli” è il nuovo “Tango della Menade”, pezzo al femminile carico di visioni viscerali. Anche la strumentale “Il sereno e la tempesta” è ben costruita, segna il passaggio verso la cover di Dave Cousins, “The Battle”. Italianizzata, “In Battaglia”, riesce a evocare scorci di trincee tra le montagne brumose del nord Italia, pezzo di chiusura veramente emozionante, da pelle d’oca. Se potete reperirlo (anche se ormai fuori produzione) non esitate.

VOTO: 7,5

Tracklist:
01. L'Occidente
02. Santa Luce Dei Macelli
03. Il Sereno E La Tempesta
04. In Battaglia - The Battle

giovedì 5 agosto 2010

Predators

Predators
Azione(?)/Fantascienza(??)/Horror(???)
(2010)



Altri soldi buttati. Non riesco ancora a capacitarmene a distanza di ormai due settimane, mi chiedo davvero come sia possibile non avere una, dico UNA idea almeno decente. Non è umanamente possibile non riuscire a creare nemmeno un momento di tensione, di stupore, di meraviglia, di terrore. Nessuna scena decente, nessun momento interessante. Ragioniamo per gradi: un film come questo “Predators” esclude a priori contenuti sociali, rimandi filosofici, stimoli intellettuali, insomma è un film in cui dovrebbero parlare solo mitragliatori, cannoni al plasma e lame taglienti. Quindi quello che mi aspetto è un film di azione abbastanza tamarro, ma non solo, può anche sfruttare un immaginario fanta-orrorifico estremamente funzionale e stimolante. Invece il vuoto, siamo di fronte alla più totale demenza e mancanza di immaginazione e creatività. Mai mi sarei aspettato di dire che i precedenti, obbrobriosi e inutili “Alien vs Predator” sono migliori di questo aborto, invece eccomi qui. Era dai tempi di “Blade Trinity” (che mi è rimasto impresso come pietra miliare dell’orrido) che non vedevo un film così dannatamente insulso. Non c’è niente di male nei film tamarri o fini a sé stessi, intrisi solo di azione e sparatorie. Ma anche le cose tamarre bisogna saperle fare. E il signor Nimród Antal ha fallito miseramente. Mi chiedo soprattutto come Rodriguez abbia potuto produrre uno schifo del genere.

Ma passiamo in rassegna alcuni dei momenti peggiori e più insensati.

1. I nostri eroi entrano in contatto con i Predator(s) e scoprono che la ragazza già conosceva questi alieni, quando erano apparsi sulla Terra in Guatemala la gente si copriva di fango per non essere localizzata dai sensori di calore. Nel momento in cui lo dice sono appena caduti giù da una cascata (mi ricorda qualcosa!), secondo voi pigliano il fango dalla spiaggia? Ovviamente no, è preferibile farsi scannare ancora un po’ visto che il film è iniziato da poco.

2. Circa a metà film incontrano il Morpheus di Matrix, Laurence Fishburne. Uno psicotico che però sopravvive da anni su questo pianeta ed è anche riuscito a fare fuori alcuni Predator(s), rubandogli corazza, armi e via dicendo. È il picco del film, nel senso che ci si aspetta uno scontro ad armi quasi pari, è una bella trovata quella di permettere agli umani di difendersi come si deve. Invece anche qui il registra riesce a distruggere quella che poteva essere l’unica idea capace di portare il film sulla soglia della decenza. Tempo cinque minuti e Morpheus, dopo aver tentato di ammazzare (?!) i nuovi compagni, viene polverizzato (letteralmente) da un Predator: la scena è una delle più orrende mai realizzate, una cannonata che dissolve il malcapitato in un effetto digitale di serie z.

3. Ad un certo punto della fuga c’è il banalissimo e scontatissimo scontro tra il membro della yakuza e un Predator, lama contro lama. Inutile dire che pure stavolta la tensione è veramente al minimo, si ripetono le solite quattro azioni fino all’esaurirsi dello scontro. Particolarmente ridicola è l’ambientazione del duello: dopo una fuga in mezzo alla foresta i protagonisti si ritrovano all’improvviso in questo campo, che sembra davvero uno di quei parchi costruiti a tavolino con tanto di lampioni che illuminano la scena. Trash all’ennesima potenza.

Questi grossomodo sono i momenti più insensati, il film è comunque un susseguirsi di banalità, spacconate militari, dialoghi infantili, scene fotocopia del primo Predator, azione di livello infimo, tensione inesistente. Il finale ovviamente ce lo aspettavamo tutti così, peccato che il fratello mongolo di Schwarzy non faccia minimamente lo stesso effetto. Inoltre va sottolineata la scarnissima ambientazione e i pessimi effetti speciali. La prima vanta la solita foresta e il campo base dei Predator(s), quaranta metri quadrati di terra spoglia e simil-tetra con tanto di quarti di manzo (di gomma!) sventrati e appesi qua e là. Gli effetti speciali invece sono a dir poco ridicoli, sembra di vedere degli ologrammi, l’effetto plastico e irreale è fin troppo evidente.
Infine mi chiedo: come si può costruire un film basandolo su un gruppo di persone male equipaggiate scaraventate in terra straniera e ostile contro un intero gruppo di Predator(s) quando nel primo film un solo alieno ha fatto fuori un intero commando? Non è un poco insensato e assurdo? Visto e considerato che già a 10 minuti dall’inizio i nostri eroi fanno fuori quasi tutte le munizioni? Non so, certi film mi fanno davvero incazzare pensando al potenziale che potrebbero sfruttare. Non chiedo niente di trascendentale, solo un’oretta e mezza di violenza, inseguimenti tesi, sparatorie e scontri all’arma bianca, tutto inserito in uno scenario fantascientifico di gusto orrorifico. Pollice verso, molto verso. In pasto ai leoni. A confronto un buon film come "Pitch Black" diventa un capolavoro.

VOTO: 2/3

mercoledì 4 agosto 2010

Wu-tang Clan - Enter the Wu-Tang (36 Chambers)

Wu-tang Clan - Enter the Wu-Tang (36 Chambers)
Hardcore Rap
(1992)



Inchiniamoci di fronte ad una colonna portante del rap, a mio parere il miglior album della scena mai prodotto. Esordio col botto di uno dei più importanti gruppi hardcore-rap, uscito quasi vent’anni fa ma che ancora fa tremare la terra con i suoi beat al fulmicotone e il suo vertiginoso incedere. Mixato sfruttando soprattutto spezzoni di film di Kung fu e completato dalle voci degli otto (!) membri del Clan, si tratta di un album letteralmente incalzante, completo, aspro e sporco quanto basta, a tratti tamarro, un assalto a mano armata. C’è veramente tutto quello che serve per comporre un album impeccabile, compresi i “grandi classici” ("C.R.E.A.M." o "Wu-Tang Clan Ain't Nuttin ta F' Wit"), miscela bene momenti aggressivi ad altri più orecchiabili. Essere travolti da una "Shame on a nigga" e rendersi conto che è stata scritta nei primi anni novanta è dimostrazione del talento di un gruppo che è riuscito negli anni a crearsi un vero e proprio impero, al di là del valore delle successive produzioni e degli inutili eccessi mediatici e commerciali. Questo è l’old style che riesce ad essere ancora interessante e a non sbiadire di fronte ai nuovi tecnicismi, pietra miliare che non va inutilmente idolatrata né sterilmente “studiata”, semplicemente tenuta in considerazione per ciò che il rap è stato e ciò che sarà. Menzione d’onore per il pezzo caratterizzato dalla base più emozionante mai realizzata, “Tearz”; base presa in prestito dalla canzone “After Laughter” di Wendy Rene e qui remixata superbamente, la quintessenza del rap.
En garde, I'll let you try my Wu-Tang style.

Tracklist:
1.Bring da Ruckus
2.Shame on a Nigga
3.Clan in da Front
4.Wu-Tang: 7th Chamber
5.Can It All Be So Simple
6.Da Mystery of Chessboxin'
7.Wu-Tang Clan Ain't Nuttin ta F' Wit
8.C.R.E.A.M.
9.M.E.T.H.O.D. Man
10.Protect Ya Neck
11.Tearz
12.Wu-Tang: 7th Chamber - Part II
13.M.E.T.H.O.D. Man Skunk RMX (bonus track)
14.Conclusion