mercoledì 29 settembre 2010

Starship Troopers - Fanteria dello Spazio

Paul Verhoeven è un regista un po’ controverso, ha realizzato diverse pellicole di dubbio gusto ed alcune altre che si sono conquistate un posto nel cuore degli amanti del cinema d’azione fantascientifico (Atto di Forza e RoboCop). Tratto distintivo è la particolare violenza sfruttata dal regista, le scene d’azione sono spesso segnate da uno splatter non eccessivamente sanguinolento ma comunque molto disturbante. Il cast è solitamente scelto selezionando attori agguerriti e caratterizzati da tratti rudi, in linea con l’immaginario battagliero. Non si tratta di individui infimi à-la Seagal, ma di discreti attori con buone capacità espressive che ben si inseriscono nel contesto virilmente spietato. Diamogli in mano un mitra e il gioco è fatto.
È una breve premessa necessaria che ho deciso di inserire per anticipare una tematica un po’ ostica, che sostanzialmente riguarda la qualità di un film. Come si può (o si deve) giudicare un film? È corretto utilizzare come paragone il cinema in generale o è utile sfruttare una divisione in generi? Non solo, il film va spogliato dalle intenzioni del regista e valutato in un’ottica più “estetica” o è necessario inquadrare il punto di vista del creatore? È possibile paragonare la nuova era cinematografica (ma anche artistica in generale), l’era del “è già stato detto tutto in tutti i modi”, con gli albori e le prime evoluzioni cinematografiche (e artistiche)? Insomma, credo che di carne al fuoco ce ne sia molta e ho qui delineato giusto alcuni spunti di valutazione che ritengo fondamentali. Mi orienterò essenzialmente su questi. Prima di tutto, per dare un’idea ampia, credo che sia la componente oggettiva che quella soggettiva siano necessarie (ma va?), ma c’è una relazione molto strana e ambigua tra le due. Il de gustibus è una frase fatta che può essere sfoggiata solo in seguito ad un buon scambio di vedute e di argomentazioni, usata in partenza è solo una banale pacchianata adoperata da chi non sa motivare. E badate che in larga parte anche le motivazioni soggettive sono motivabili. Per quanto riguarda l’aspetto più oggettivo, credo derivi soprattutto dalla conoscenza e dall’esperienza. Avere una (anche minima) padronanza di un determinato argomento significa averlo analizzato, studiato o comunque trattato con frequenza nel tempo, solitamente perché spinti da passione. È in questo momento che anche i gusti iniziano a cambiare, più o meno lentamente, pur mantenendo un “nucleo di invarianza” che può anch’esso mutare nel tempo, con maggiore difficoltà. Ma capiterà comunque di vedere un film, coscienti delle grosse mancanze che presenta, e dare un giudizio positivo per motivi più inconsci, personali e intimi. Quindi, da un lato assistiamo a due estremi, l’estrema razionalità nel giudizio e una valutazione molto “passionale” e soggettiva, di mezzo abbiamo una scala di valori che vede la cooperazione del lato soggettivo con quello oggettivo, capaci di influenzarsi a vicenda ma con una certa predominanza del lato oggettivo. Questo negli aspetti più dettagliati: se siamo appassionati di fantascienza perché è un genere che intimamente riesce a farci provare determinate emozioni (passione duratura nel tempo, il già citato “nucleo di invarianza”) stiamo parlando di un gusto soggettivo abbastanza generico. La differenza è che alimentando la nostra passione svilupperemo una più profonda analisi critica e daremo valutazioni più oggettive (e dettagliate) riguardo i film di fantascienza. Passiamo ora al secondo punto, un film è relazionabile e confrontabile genericamente con ogni altra pellicola prodotta nella storia del cinema o il campo va ristretto a titoli e a generi più o meno specifici? Questo è un argomento abbastanza lungo da trattare, ci sarebbero da tenere in considerazione moltissimi aspetti, a loro volta molto sfaccettati. Detto molto in breve, ritengo fondamentale considerare un film in rapporto ad un determinato genere, sia per semplicità, sia per quanto riguarda l’intenzione e le pretese dell’autore. Non ha alcun senso paragonare un prodotto essenzialmente finalizzato a divertire e intrattenere con un’opera elaborata attorno a tematiche più “alte”, quali la critica sociale, la natura umana, il senso della vita e via dicendo. Stiamo parlando di intenzionalità: un film d’avventura non ha alcuna intenzione di essere preso in considerazione per quello che non è, bensì per il lato (ma dai!) avventuroso. Un film d’azione non va analizzato da un punto di vista metafisico o trascendentale, non ha proprio alcun senso. Quindi mi sembra chiaro che un “Otto e mezzo” di Fellini non può essere paragonato a un “Die Hard”. Sembra di parlare di ovvietà, ma assicuro che non è così, paragoni del genere si sentono molto spesso. Senza considerare inoltre che non sempre (anzi, tutt’altro!) si riesce a realizzare bei film sfruttando tematiche “alte”. È facile cadere nel pacchiano e nel retorico, tanto quanto è facile scadere nel ridicolo con film più semplicistici. Ho detto che si devono tenere in considerazione anche le intenzioni dell’autore (e qui riprendo il terzo punto di domanda). Questo non vuol dire che se un film fa schifo si salva perché era volontà del regista fare un film orrendo, l’impronta del regista non è un salvagente. È però un dato da tenere in considerazione in determinate circostanze, soprattutto quelle più dubbie e controverse; Starship Troopers è un ottimo esempio. L’elemento goliardico inserito da Verhoeven per criticare la guerra non sminuisce la pellicola in sé, né è intenzione del regista prendersi gioco del libro di Heinlein. L’ironia di fondo è calibrata correttamente, eccessiva solo nei momenti opportuni, e va quindi a giocare un ruolo fondamentale. Il regista vuole realizzare un film d’azione molto splatter ambientato in un futuro estremamente militarizzato. Per quale motivo dovrei partire prevenuto, analizzandolo partendo da premesse che non c’entrano assolutamente nulla e che vogliono solo fare polemica o finto elitarismo da erudito?
Per concludere, spesso ci si chiede se è il caso di paragonare film ormai storici con le recenti produzioni, se la nuova modernità presenta gli stessi valori sia estetici che contenutistici rispetto al passato. Credo che una buona parte della risposta risieda nel tempo stesso, non è possibile valutare immediatamente un film a 360°, sarà il tempo a determinare la sua importanza grazie all’impatto e all’influenza che ne conseguiranno (o che non ne conseguiranno affatto). C’è da dire anche molto semplicemente che ostentare la difesa dei grandi classici sminuendo le nuove leve è da perfetti idioti: in primis perché ciò che è classico lo è diventato nel tempo e non è nato tale, in secondo luogo perché è spesso una presa di posizione aprioristica odiosa, infine perché la stasi porta al ristagno, è l’innovazione (con tutta la sua carica corrosiva, contaminante o trasgressiva) che genera la novità e la differenza. La differenza, sapere che il film che sto per vedere non è la stessa minestra che mi sono già sorbito cento volte. Non è una bella cosa? A me sembra proprio di sì. Ultima considerazione, credo che l’epoca in cui è stato girato un film possa essere considerata una sorta di genere anch’essa. Un determinato contesto storico presenta una specifica realtà, caratterizzata da una certa società, da un certo pensiero comune, specifiche tecnologie e via dicendo, tutto un particolare modo di percepire e di vivere la vita che influenza a sua volta le intenzioni del regista e il taglio dato al film.
Questa voleva essere una semplice sintesi volta ad esplicare alcuni criteri di valutazione più o meno condivisibili, personalmente la mia esperienza mi ha portato a certe conclusioni che ritengo adattabili in svariati contesti. Ho deciso di scriverla come introduzione alla recensione di Starship Troopers perché si tratta di un film singolare che si trova ad un estremo, cioè quell’estremo a cui comunemente corrisponde uno zero artistico (o comunque valutazioni mediocri). Io non sono assolutamente d’accordo e posso dimostrare (o almeno provarci) che un film sostanzialmente vuoto di contenuti può dimostrare un valore artistico notevole.

Starship Troopers
Azione / Fantascienza / Splatter
(1997)



In un futuro non troppo lontano la terra è controllata da gerarchie militari e vige un regime reso impalpabile dalla propaganda mediatica lobotomizzante. Una guerra incombe: una razza aliena, gli aracnidi, minacciano la stabilità del pianeta Terra, ostentando aggressività ed intenzioni belligeranti. I coraggiosi fanti spaziali avranno l’incarico (l’onore!) di difendere la patria e la propria specie.

AMBIENTAZIONE: Klendathu, il pianeta degli insetti, è una distesa arida e brulla, ricca di cave e formazioni rocciose sopra le quali di giorno batte un sole incandescente. Per le riprese è stato scelto “Hell's Half Acre”, nel Wyoming. L’ambientazione scarna e desolata appare forse fin troppo minimale, ma di fatto offre un campo di battaglia senza via di scampo, l’umano dato in pasto alle belve non ha rifugio ed è costretto a scontrarsi con il nemico alieno. Non c’è possibilità di fuga né di copertura. Il soldato indottrinato e sfruttato come carne da macello appare qui nella sua forma più evidente e umana, dove o è spinto da furore guerriero e si getta a capofitto nella mischia, inebriato, o volta le spalle al nemico, terrorizzato, in una ritirata impossibile. Una scelta azzeccata molto efficace nella sua semplicità.

COSTUMI: Robert A. Heinlein ha creato l’esoscheletro, una struttura che massimizza le abilità di guerra e si rivela un efficace strumento di difesa e d’assalto. Ma nel film è stata fatta un’altra scelta, probabilmente perché una riproduzione fedele sarebbe stata troppo ingombrante e dispendiosa. Semplicemente il fante ha una divisa leggermente imbottita e corazzata che lascia un’ottima libertà di movimento, fattore fondamentale nelle scene più spettacolari. Il design è ottimo, se non praticamente perfetto. Stesso dicasi per le armi, i fucili mitragliatori in dotazione sono di quanto più efficace si potesse realizzare. La semplicità anche stavolta si è rivelata il metodo migliore, garantendo un’immagine estremamente funzionale, dal sapore futuristico e militaresco, senza strafare col rischio di ridicolizzare con i soliti eccessi giustificati dal “ma è fantascienza!” (quindi tutto è possibile ed ogni cosa esagerata è sensata!). Le divise degli ufficiali e dei piloti sono le classiche uniformi elegantemente gerarchiche, il rimando alla seconda guerra mondiale (al Terzo Reich) è evidente.

SCENOGRAFIA: la prima parte si svolge soprattutto nel campo di addestramento, la seconda in avamposti abbandonati di Klenadathu e su astronavi. Si ripete anche qui lo sfruttamento di elementi classici ma ben realizzati, senza eccessi inutilmente stravolgenti, la semplicità è ben calibrata e la realizzazione degli spazi è gestita come si deve. Il campo d’addestramento è il solito che potremmo vedere nel nostro XXI secolo, gli avamposti sono rudimentali e costruiti alla bell’e meglio con materiale principalmente ferroso, gli interni sono asettici e tecnologici quanto basta. È chiaro che non sono gli eccessi quasi barocchi a caratterizzare Starship Troopers, il parallelismo con seconda guerra mondiale, attualità e futuro imminente è evidenziato da scelte stilistiche che non vogliono sconvolgere lo spettatore con roboanti agglomerati di lamiera.

COLONNA SONORA: la colonna sonora è probabilmente una delle migliori mai realizzate, trasuda epicità da ogni nota. Composta dal grandissimo Basil Poledouris, incarna perfettamente l’ardore battagliero che infervora gli animi dei soldati, rulli di tamburi militareschi sui quali si innalza un mastodontico muro di suoni. Da brividi.

EFFETTI SPECIALI: anche qui siamo di fronte ad una componente sensazionale. L’attenzione dedicata alla costruzione di effetti speciali spettacolari ma realistici è stata fondamentale. Il livello epico e distruttivo è reso alla massima potenza, esplosioni, smembramenti, fuoco alieno e altro ancora sono realizzati con destrezza, non si poteva chiedere di meglio.

L’AZIONE:
gli scontri con gli aracnidi sono caratterizzati da una componente terribilmente disfattista. Il fante sa che in uno scontro frontale difficilmente può riuscire ad abbattere il nemico, capace di resistere a diverse raffiche. Si genera in questo modo una sensazione agghiacciante, vedere malcapitati esseri umani che si lanciano all’assalto contro alieni dalla ferocia inaudita è veramente angosciante, soprattutto considerando la fine brutale alla quale vanno incontro. È qui che la violenza ultra-splatter prende il sopravvento, gli umani vengono letteralmente fatti a pezzi dagli aracnidi, che si avventano in gruppo su singoli malcapitati smembrandoli e scagliando i brandelli in ogni dove. Il senso di impotenza e di sadismo è quasi nauseante. Poche volte ho assistito ad una carica violenta di simili livelli. Non mancano ovviamente i momenti di protagonismo dei nostri eroi, che fanno assaggiare piombo su piombo alle bestie e in alcune scene si cimentano in azioni spettacolari da medaglia d’oro al valore militare.

I PROTAGONISTI: qui si passa ad un altro aspetto molto criticato, il cast di serie B. In effetti non siamo di fronte a livelli di recitazione molto alti. Ma quanto importa? Quello che serve è rappresentare rudi veterani e ragazzi prestanti di belle speranze pronti a servire la patria. Militari cinici devoti al mito della violenza, senza troppe pretese intellettuali, praticamente lobotomizzati da una società dittatoriale. L’aspetto ironico svolto dalla ridondante propaganda rende ancora più evidente la necessità di sfruttare personaggi piatti e indottrinati. Questo per quanto riguarda la “bassezza” tematica e la mentalità uniformata che accomuna ogni protagonista. Passando all’aspetto prettamente recitativo è vero che non si tratta di grandi interpretazioni ma non è neanche il caso di parlare di tragedia: il livello si mantiene sulla sufficienza, innalzandosi di tanto in tanto. Menzione a parte per il valido Michael Ironside, un attore sopra la media e dotato di buon talento. Ma anche Clancy Brown e Neil Patrick Harris fanno la loro parte, così come la discreta Dina Meyer. Insomma, diciamo che è l’attore principale, Casper Van Dien, a suscitare le maggiori perplessità, con la sua faccia quadrata da contadinotto dell’Iowa un po’ tonto. Ma è un protagonista che comunque incarna molto bene un aspetto di facciata della futura società, un giovane atletico dal bell’aspetto e con poco cervello che diventa un eroe della federazione e sprona i giovani a seguire le sue orme. La recitazione in un film come Straship Troopers assume un ruolo più marginale rispetto ad altre componenti (ribadendo comunque che il film si mantiene su livelli discreti). Nonostante questo i personaggi, nella loro semplicità, risultano comunque abbastanza magnetici e coinvolgenti, dotati in alcuni casi di grande carisma (vedi il tenente Rasczak).
Predator è diventato un gran film di fantascienza ma non mi pare che la recitazione fosse migliore. O sbaglio?



GLI ARACNIDI: i nemici, gli alieni, sono stati realizzati egregiamente, anche qui non mi sarei aspettato di meglio. L’aspetto non è quello di un comune ragno, ma è più “muscoloso” e geometrico, squadrato, meccanico. Le zampe sono acuminate, taglienti, trafiggono sterni e crani. In linea con la ferocissima aggressività che li caratterizza.



L’IRONIA: la volutamente eccessiva militarizzazione, l’esasperante e snervante propaganda, l’incessante indottrinamento, oltre ad essere l’ossatura dell’intero film, sono sintomo di un’ironia più o meno evidente. In un’intervista Verhoeven dichiara che è una critica alla politica guerrafondaia americana che vuole sempre scovare un nemico da combattere per distrarre le menti dei cittadini (in realtà chi distrugge Buenos Aires?). È evidente che non c’è alcun intento propagandistico da parte del regista che, seppur da sempre affascinato dalla violenza, non si è mai sognato di esaltarla.



SFATIAMO ALCUNI MITI:
1. Il film di Verhoeven NON è una trasposizione del libro di Heinlein, così come Atto di Forza NON era una trasposizione del racconto di Dick. Si tratta di ispirazioni, spunti, idee di partenza. Starship Troopers, oltre a prendere il nome, estrapola dal romanzo solo una parte, che sostanzialmente fa da sfondo all’intera storia, cioè la guerra contro gli aracnidi. Verhoeven (e soprattutto lo sceneggiatore Edward Neumeier) volevano girare un film di fanta-guerra con “insetti alieni”, ispirati in primis da vecchi film di sci-fi, e hanno trovato un ottimo spunto nel romanzo di Heinlein. Quindi è inutile parlare di fedeltà o infedeltà, non c’era alcuna intenzione da parte degli autori di portare sullo schermo il capolavoro dello scrittore americano.
2. Non c’è niente di fascista in questo film e basta ritornare al paragrafo precedente sull’ironia per capirlo, ma vorrei anche aggiungere che trovo ridicolo attribuire al regista un legame ideologico con l’immaginario che crea. Non è sempre così ovviamente, è possibile e accade spesso che un regista inserisca punti di vista personali più o meno espliciti. Ma non è assolutamente il caso di Starship Troopers, da cui non traspare assolutamente una visione positiva della società che viene rappresentata. Lo stesso Heinlein fu accusato di fascismo, al che rispose che attribuire all’autore pensieri del narratore o dei protagonisti è da idioti. Stesso dicasi per il film.

In definitiva ritengo Starship Troopers un capolavoro di azione fantascientifica in salsa splatter, un gioiello incompreso e fin troppo calunniato, mentre mi tocca assistere ad esaltazioni di una merdosa pacchianata come Avatar, quintessenza dell’esagerazione fine a se stessa e di cliché noiosissimi, costruito su uno sfondo (auto)citazionista (plagi?) imbarazzante.

Avanti Leoni, volete diventare degli eroi?!

giovedì 23 settembre 2010

The Host

The Host
Monster movie / Commedia drammatica
(2006)



Ne ho sentito parlare bene molto spesso, quindi mi sono deciso a vederlo. Questo "The Host" (o "Gwoemul") è un monster-movie sud-coreano piacevole e divertente, che mischia all'horror una buona dose di commedia a tratti demenziale. Una creatura enorme e ripugnante emerge da un fiume seminando il terrore in città, come si deduce dall'incipit è la conseguenza dell'eccessivo inquinamento delle acque. Durante la sfuriata uccide diverse persone e prima di ritornare al fiume rapisce una ragazzina. Il padre, assieme a fratello, sorella e pater-familias scopre in seguito che è ancora viva. Il paese è in stato d'assedio ma la famiglia riesce ad organizzarsi alla bell'e meglio per salvare la bambina, avventurandosi in una spedizione nelle fogne della città, dove si nasconde la creatura.
Il film alterna momenti d'azione e di tensione a scene grottesche, in cui la componente drammatica (la disperazione dei famigliari) è resa praticamente ridicola dai protagonisti, che con una serie di battute, espressioni facciali e atteggiamenti idioti sdrammatizzano l'atmosfera. L'ambientazione sporca e grigiastra e le tinte uggiose contribuiscono a creare un senso di disagio costante; anche il luogo di caccia, l'impianto fognario, è realizzato piacevolmente, una struttura di cemento labirintica ricca di anfratti e tunnel. La creatura, interamente digitale, riesce ad essere molto realistica, senza scadere nel pacchiano.
La trama è costruita sulla scia di un "incidente" realmente avvenuto nel 2000, quando un impresario di pompe funebri al servizio degli Stati Uniti rovesciò (consapevolmente) litri e litri di formaldeide nelle fognature di Seoul.
Inoltre nel film il governo diffonde la notizia di un virus generato dalla creatura capace di infettare l'uomo e per il quale non sembra ci sia una cura. Ovviamente è una farsa ed è chiaro il rimando critico al continuo allarmismo che ogni anno scopre in un qualche bacillo un pericolo di pandemia incombente.
Infine viene fortemente ridicolizzato l'operato del governo sud-coreano, totalmente inetto e incapace di affrontare adeguatamente la bestiale minaccia.
Una pellicola divertente, macabra e insana giusto quanto serve, senza scene particolarmente violente e truculente (non è solo il sangue a rendere un film angosciante).

VOTO: 7+

Starship Troopers: Marauder

Starship Troopers: Marauder
Fantascienza (...)/ Azione (...) / Horror (...)
(2008)



Mi sono iscritto recentemente a Flixster (in realtà ero già iscritto da qualche anno ma non usandolo mai non mi ricordavo minimamente quale fosse il mio profilo). Ho letto un pò di commenti su questo film (il terzo della "serie"), secondo alcuni utenti decisamente migliore del secondo. Si sbagliano, Starship Troopers: Marauder fa schifo quanto il secondo capitolo, anzi forse è addirittura più disastroso. Premetto che il primo Starship Troopers è uno dei miei film preferiti e non ho problemi ad ammettere che sia un capolavoro. E lo dice un fan di Robert Heinlein. Non esagero e ovviamente non ha senso che lo si paragoni ad un film di Fellini, ma comunque ne farò a breve una recensione e approfondirò meglio il mio punto di vista.
Torniamo al terzo sequel in questione, si presenta come un "cheap-movie", quindi l'aria di pagliacciata low-budget si avverte di già, ma un livello così basso non me lo aspettavo. Ambientazione "futuristica" (ha!) ridicola, scene di guerra e scontri (haha!) noiosissimi, splatter (hahaha!) ai minimi livelli, recitazione (hahahaha!) inesistente. Anche il mediocre Casper Van Dien è in forma peggiore del solito. Che c'è da dire? Niente probabilmente. La cosa più imbarazzante è forse il tentativo volutamente buffonesco di sfruttare l'estremismo militare per farne una caricatura, ma l'unico risultato è stato rendere ridicola l'intera pellicola. Uno dei film più inutili che abbia mai visto.

VOTO: 3

venerdì 10 settembre 2010

Francesco Guccini - Radici

Francesco Guccini - Radici
Cantautore
(1972)



Francesco Guccini, uno dei nomi di punta del cantautorato italiano, è stato capace di unire numerose generazioni quanto pochi altri (De Andrè, De Gregori, Battisti). Durante i suoi concerti si può notare una fauna molto eterogenea, a dimostrazione di un notevole carisma e di una capacità compositiva solidissima in grado di coinvolgere un po’ chiunque, senza per questo risultare banale o scadente. Nonostante questo è sempre stato anche un personaggio al centro di alcune critiche, principalmente “politiche”: da una parte chi lo accusa di essere “comunista!!” (da leggersi in tono berlusconian-dispregiativo), dall’altra chi lo accusa di essere un finto compagno troppo moderato. Insomma, a differenza dei sopracitati De Andrè o De Gregori la componente politica in Guccini è sempre stata più evidente. Sinceramente non ne capisco il motivo, reputo molto più “politicizzato” De Andrè ad esempio. Probabilmente i vecchi legami (più o meno solidi) con certi ambienti e gruppi politici hanno lasciato un marchio che ancora oggi non si dissolve. Ma non importa minimamente. Le tematiche principali affrontate da Guccini ruotano attorno alla solitudine, ai rapporti umani, a stati d’animo malinconici e via dicendo. È appunto la malinconia a caratterizzare la sua produzione, amplificata da un timbro grave e ruvido, che si discosta dalla maggior parte delle voci del panorama italiano (ma non solo), tendenzialmente più alte e melodiose. Anche questa caratteristica è stata spesso soggetta a critiche, sostanzialmente la sua voce non è abbastanza armoniosa e quindi poco adatta al canto. Ma a quanto pare lui non è d’accordo. E nemmeno io, anche perché la tecnica c’è e si sente pure dal vivo (vorrei vedere altri settantenni riuscire a reggere due ore di concerto come è ancora in grado di fare lui).
Passando all’album in questione, ritengo Radici una pietra miliare, uno degli album più belli mai prodotti nella storia della musica e, per quanto riguarda la musica italiana, siede di fianco ad un altro classico dei classici, “Tutti morimmo a stento”, del grande Faber. Radici è un tuffo nel passato, i ricordi del cantautore ci scorrono davanti agli occhi e veniamo coinvolti in prima persona in una storia che riusciamo a sentire nostra. È condivisione emotiva di frammenti di vita, un microcosmo che può essere comune a tutti senza che venga persa la necessaria soggettività. Ognuno a modo suo è in grado di perdersi nei meandri della memoria, rievocando tempi perduti. È ovviamente la malinconia a caratterizzare ogni pezzo dell’album, come una patina brumosa che appanna le immagini evocate. “Radici” ci introduce in questo mondo di ricordi, visioni quasi bucoliche di un ambiente famigliare abbandonato da tempo, il ricongiungimento con il nostro passato. “La locomotiva” è probabilmente il classico per eccellenza di Guccini, recentemente eletta come miglior canzone popolare italiana, descrive il folle gesto del macchinista Pietro Rigosi, anarchico, che nel 1893 si diresse a tutta velocità verso la stazione di Bologna. Gesto che ovviamente viene attualizzato nel clima politico dei primi anni ’70: la lotta che dilaga, le illusioni di giustizia, i sogni di rivalsa. Capolavoro indescrivibile, un pezzo al di fuori del tempo, che ancora oggi fa venire la pelle d’oca. “Piccola Città” è il ricordo di alcuni mesi d’infanzia trascorsi a Modena, si intrecciano rabbia e nostalgia, è il pezzo che maggiormente rappresenta il legame con un luogo abbandonato da anni. Altro classico, è un sublime affresco di un tempo perduto, quando ancora giovani e spensierati si sognavano “gli eroi, le armi e la bilia”. Segue “Incontro”, un amore rievocato dopo anni e anni; nonostante questo, pur essendo praticamente l’unico pezzo “d’amore” dell’album è il meno malinconico, anzi, si direbbe quasi che spunti dell’ironia nei confronti del tempo andato, della giovinezza sfiorita. “La Canzone dei Dodici Mesi”, come da titolo, è lo scorrere del tempo per eccellenza, uno stupendo calendario caratterizzato da un triste giro di chitarra; qui Guccini sfoggia la sua grande cultura, citando una serie di poeti in maniera più o meno velata. Il ritornello è la quintessenza dell’album: “O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia / diverso tutti gli anni, e tutti gli anni uguale, la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare…”. Arrivando a “La Canzone della Bambina Portoghese” i sapori si fanno agrodolci, è invocata l’immagine dell’oceano, che si staglia all’orizzonte e incornicia la “bambina portoghese”. Tutto sembra immenso e incomprensibile, il clima surreale è amplificato dalla sensazione di un caldo asfissiante che assopisce, trasportando l’ascoltatore nel mondo onirico. Si conclude con una serie di domande senza risposta sulla natura controversa e contraddittoria dell’uomo. “E poi, e poi / che quel vizio che ti ucciderà non sarà fumare o bere / ma il qualcosa che ti porti dentro / cioè vivere, vivere e poi, poi vivere e poi, poi vivere...”. L’album si conclude con l’ennesimo capolavoro, un altro classico costantemente riproposto in sede live negli anni, “Il vecchio e il bambino”. Due estremi a confronto, l’infanzia innocente e incosciente e la vecchiaia, che incarna simbolicamente la saggezza e l’esperienza, in un vortice di ricordi non sempre nitidi e a volte esagerati. Il vecchio porta il bambino su una pianura desolata e grigia e gli racconta con le lacrime agli occhi di come era una volta, verde e rigogliosa. È evidente la critica nei confronti dell’eccessiva urbanizzazione ed industrializzazione, che distrugge il territorio cementificando ed inquinando in ogni dove. È l’incontro tra due generazioni figlie di epoche lontane tra loro, ognuno porta con se ricordi differenti che tramanderà, sempre con un senso di malinconia e di perdita irrimediabile, tempi irripetibili che vivono solo nel cuore e nella mente.
Un grandissimo album che non sbiadisce mai negli anni, intenso dalla prima all'ultima nota.

"con l' anima assente, con gli occhi bagnati, seguiva il ricordo di miti passati..."

Tracklist:
1.Radici
2.La locomotiva
3.Piccola città
4.Incontro
5.Canzone dei dodici mesi
6.Canzone della bambina portoghese
7.Il vecchio e il bambino