mercoledì 1 dicembre 2010

Le ultime parole di Mishima

Furubayashi Takashi, Kobayashi Hideo:
Le ultime parole di Mishima
a cura di Emanuele Ciccarella

Intervista
(2001)



Pochi giorni fa, il 25 Novembre, era il quarantesimo anniversario della morte di Yukio Mishima. Il 25 Novembre 1970 il celebre scrittore giapponese si tolse la vita con il tradizionale rito samurai del seppuku. Si squarciò il ventre e venne poi decapitato da un seguace, membro del Tatenokai. Ancora oggi Mishima, drammaturgo e scrittore, esteta culturista e difensore delle tradizioni imperiali, è un personaggio molto complesso, sfaccettato, contraddittorio. La famosa maschera non è stata completamente deposta, lasciando aloni di incomprensione che difficilmente si potranno chiarire. L’ecletticità e l’ossessione per la purezza e per il mito della figura imperiale si sono diramate in molteplici campi, dalla letteratura alla drammaturgia passando per un vero e proprio culto del corpo e del sangue, che culminò nel suicidio.
Tra saggi e articoli si possono leggere svariate interpretazioni riguardanti il pensiero di Mishima, spesso esageratamente negative e faziose. Non era un libertario né un socialista, ma sicuramente non era nemmeno un fascista o un nazionalista nel senso comune del termine. La sua visione pseudo-politica (perché qui non si parla di politica, è un argomento lontano dall’autore) era fortemente trascendentale, oscillante tra classicismo e romanticismo, carica di ideali di purezza e di immagini limpide ed affascinanti. Come lui stesso dichiara nell’intervista di Furubayashi, l’imperatore “Non [è] un signore feudale in quanto figura gerarchica della storia, ma come simbolo della reagalità” e ancora “Quello che io intendo per sistema imperiale è qualcosa di molto diverso da quello che lei vede come un sistema monarchico assolutista utilizzato dalle forze politiche”. Ecco perchè mi sento di consigliare questo libricino, comprendente due interviste per poco più di 120 pagine; si entra in contatto diretto con l’autore, senza dover decifrare interpretazioni di critici che filtrano attraverso la propria ottica il personaggio di Mishima. Non sto dicendo che i testi critici sull’autore non siano validi, anzi alcuni sono decisamente interessanti, ma è utile ricercare delle fonti dirette per non mettersi in testa strane idee e non partire prevenuti.
“Le ultime parole di Mishima” è diviso in due parti. La prima intervista è di Furubayashi Takashi, critico di formazione marxista fortemente avverso agli ideali dell’autore ma irresistibilmente attratto dal suo stile straordinario, tanto da dichiarare “[…] penso che invece di contare quelli [libri di Yukio Mishima]che ho, sarebbe molto più veloce contare quelli che non ho. […] ho così tanti suoi libri della sua prima edizione, che un libraio mio conoscente mi dice sempre di volerli acquistare tutti per un milione di yen”. L’intervista è molto interessante e si snoda in diversi argomenti: letteratura, politica, dopoguerra giapponese, teatro, attualità, concezione dell’Assoluto, erotismo e altro ancora. Furubayashi non è un Fabio Fazio accondiscendente, ma incalza Mishima con una sincerità a tratti divertente, cercando di scavare a fondo e confrontandosi con l’autore senza farsi suggestionare, pur mantenendo il dovuto rispetto. Il confronto si mantiene su alti livelli, entrambi sono molto preparati su tutte le tematiche affrontate. Un punto di contatto tra i due si riscontra nel dramma “Giovani, rinascete!” interpretato da Furubayashi come un quadro della generazione post-bellica. In realtà Mishima lo scrisse come storia d’amore ambientata in un mondo precario, ma nonostante le divergenze entrambi si sentono legati alla rappresentazione di un momento storico che hanno attraversato assieme (sono coetanei). L’intervista è stata fatta pochi mesi prima della morte di Mishima; è incredibile la tranquillità d’animo con cui affronta l’ipotesi dell’intervistatore, secondo cui le manifestazioni militariste del Tatenokai possono essere strumentalizzate. Mishima risponde “[…]Stia a guardare quel che farò. [ride]”. È evidente la consapevolezza del gesto suicida, programmato e rispettato senza indugi.
La seconda intervista è di Kobayashi Hideo, eminente critico nazionalista. Le domande sono legate principalmente all’ambiente letterario e artistico, spesso è l’intervistatore a discorrere del più e del meno. Siamo nel 1956, anno in cui fu pubblicato “Il padiglione d’oro”, universalmente riconosciuto come il capolavoro di Mishima. Molto interessanti gli scambi di opinione sullo stile fortemente evocativo dell'autore, capace di rendere concrete e palpabili immagini di rara bellezza. Come già detto gli argomenti trattati sono limitati al campo letterario, ma si tratta comunque di un’intervista interessante in cui Kobayashi manifesta una forte attrazione per questo “diavolo pieno di talento”.
Se volete farvi un’idea sul Mishima uomo e il Mishima scrittore procuratevi questo libro, decisamente stimolante e curioso.

mercoledì 24 novembre 2010

Robert A. Heinlein - Il terrore dalla sesta luna

Robert A. Heinlein - Il terrore dalla sesta luna
Fantascienza
(1951)



Robert Anson Heinlein: un colosso della fantascienza. Probabilmente il numero uno. Indimenticabili capolavori come “Fanteria dello spazio” o “Straniero in terra straniera” hanno segnato un limite, un picco che poche volte è stato ragguagliato. Non si tratta di un autore con una fantasia sconfinata, ma il suo stile inconfondibile ha dato vita a romanzi straordinari. Il concetto di “dare vita” ad un romanzo in questo caso non è una metafora, Heinlein è capace di rendere concrete, palpabili e soprattutto verosimili le sue storie. Ricordo ancora che leggendo “Universo (Orphans of the sky)” mi sentivo completamente immerso nella narrazione, nonostante la semplicità e la linearità dell'intreccio, immedesimato nel protagonista o nel mutante Joe-Jim a fluttuare per condotti o a contemplare l'infinità della galassia. Un altro grande romanzo. È passato quasi un anno da quella lettura e sentivo il bisogno di riprendere in mano un libro del maestro. Sia chiaro, non tutto quello che ho letto fino ad ora mi ha entusiasmato: “Sesta colonna” mi è parso un romanzo poco più che discreto, “I figli di Matusalemme” non va oltre una scarsa sufficienza. E devo dire che anche questo “Il terrore dalla sesta luna” (“The puppet masters”) mi ha lasciato parecchio perplesso. Sicuramente partivo con aspettative troppo alte. Non è uno dei primissimi romanzi di Heinlein ma si può comunque inserire nel primo periodo; siamo quindi di fronte ad uno stile ancora acerbo e in fase di elaborazione.
L'idea di base diventerà un classico, influenzando altri scrittori tra cui Jack Finney e il suo celebre “L'invasione degli ultracorpi (The body snatchers)”. Una razza aliena parassita invade la terra, soggiogando gli esseri umani e annullandone la personalità. I Servizi Speciali indagano e pensano ad una controffensiva, mettendo in guardia il governo americano che però non mostra segni di preoccupazione; l'invasione è impercettibile. Solo quando la situazione inizia a degenerare vengono prese le prime misure drastiche, ma sembra che ormai non ci sia via di scampo.
Il romanzo è scritto in forma di rapporto redatto in prima persona dal protagonista, membro dei Sevizi Speciali. Un discreto incipit ci porta subito nel bel mezzo dell'azione, con i tre protagonisti al completo. Sam, il narratore e primo protagonista, è un uomo atletico e intelligente, logorato dal suo lavoro ma anche morbosamente attaccato ad esso. Mary è una donna coriacea ed affascinante, mentre Il Vecchio, capo dei Servizi Speciali, è un cinico vegliardo estremamente calcolatore, capace di suscitare grande simpatia nonostante l'ostilità che irradia da ogni poro. È il personaggio meglio caratterizzato, estremamente credibile e divertente. I loro rapporti lavorativi si intersecheranno con quelli personali e sentimentali. Quando il governo prende atto del pericolo è necessario che venga studiata una campagna di liberazione; da questo momento seguono una serie di tentativi non proprio coinvolgenti e traballanti, fino a giungere ad un finale interessante e ben elaborato. Il grosso limite di questo libro risiede infatti nel corpus centrale, in cui vengono ripetuti una serie di espedienti e di situazioni già viste per arrivare al finale.
Fondamentale la concezione di Heinlein riguardo l'individualismo, la conservazione della personalità di ogni soggetto è la chiave di volta del genere umano. L'annullamento emozionale perpetrato dai parassiti, anche se (come traspare nel finale) può condurre al nirvana, alla pace dei sensi, è in antitesi con la natura dell'uomo. Perché l'uomo è anche contrasto, tensione, negatività, a volte violenza e distruzione.
Un discreto romanzo di fantascienza, non molto coinvolgente ma abbastanza scorrevole e costruito su idee interessanti.

VOTO: 6,5

lunedì 22 novembre 2010

Franco Battiato - Gommalacca

Franco Battiato - Gommalacca
Elettronica / Pop / Sperimentale
(1998)



Gommalacca, ventesimo album di Franco Battiato, è il punto di partenza per le nuove sonorità proposte dall'artista siciliano. Al suo stile cantautorale, contraddistinto da un ermetico stream of consciousness e dal tono aristocratico (a volte odioso) si aggiungono componenti più moderne di contaminazione rock ed elettronica. Scritto a quattro mani con Manlio Sgalambro (autore dei testi) l'album si rivela decisamente ibrido e sperimentale, senza che però vengano raggiunti risultati eclatanti (al di là di copie vendute e premi vinti). Il limite principale risiede nelle melodie e nelle strutture spesso troppo facilotte e ruffiane che, nonostante la presenza lisergica di chitarre elettriche e sintetizzatori, risultano troppo scontate e fastidiose.
“Shock in my town” è uno dei pezzi migliori dell'album, in cui campionature e componente ritmica mantengono un equilibrio incalzante che esplode nel ritornello. Le tinte plumbee creano un'atmosfera allucinogena e futuristica, resa palpabile dai versi cantati con voce filtrata. Un Battiato in massima forma. “Auto da fé” parte insopportabilmente scanzonata, per poi riprendersi nelle strofe ed ammosciarsi nel ritornello, mentre “Casta diva” (dedicata a Maria Callas) alza leggermente il livello, grazie ad un pathos drammatico accentuato dalle campionature che riprendono la stessa Callas e la sua originale Casta Diva. Sullo sfondo di ritmi tribali e canti aborigeni si apre “Il ballo del potere”, travolgente ma non troppo, rovinato verso il finale da una voce fuori campo che descrive in inglese il T'ai Chi e che conferisce all'intero pezzo una ridicola contaminazione new age. Segue “La preda”, che continua sulla falsariga di quanto già sentito, esente però dalle esplosioni sonore solitamente legate al ritornello. È il pezzo passionale del lotto, che mescola tenerezza ad aspro erotismo, ma senza mordente. Il grosso difetto di questo album sta nelle invadenti sonorità pop inserite quasi ovunque, che purtroppo rovinano delle canzoni potenzialmente interessanti. Ci pensa “Il mantello e la spiga” a risollevare la situazione, grazie alle tonalità austere e apocalittiche. Un senso di inesorabilità assale l'ascoltatore, i momenti di calma sono costruiti su una base grigia e desolante, che sfocia in cacofonie elettriche ed elettroniche mentre la voce, con il suo timbro bionico, si fa sempre più tagliente. La seconda strofa è introdotta da un verso terribilmente impassibile, che recita “Come sempre le foglie cadono d'autunno”; una semplicità disarmante in grado di sprigionare una potenza evocativa straordinaria. “È stato molto bello” è il terzo ed ultimo pezzo degno di nota, la cui calma cristallina si rivela estremamente introspettiva ed emozionante. Con “Quello che fu” e “Vite parallele” si torna alla deriva, ma è con la conclusiva “Shakleton” (dedicata all'omonimo, celebre esploratore) che si sprofonda nell'abisso. Traccia peggiore dell'album (nonostante le discrete soluzioni melodiche), descrive con un tono tra il recitativo e il cantato la spedizione fallita di Shackleton e del suo equipaggio attraverso l'Antartide. I dati biografici vengono sputati da Battiato come se lo stessero ingozzando, creando un effetto ridicolo che rende la canzone inascoltabile.
Siamo quindi di fronte ad un album con buone potenzialità sfruttate male, soprattutto a causa della semplicità e ripetitività di almeno una metà dei pezzi. Spiccano alcune canzoni degne del miglior Battiato e un aborto messo in chiusura. L'intento di immergersi nel mondo contemporaneo attraverso un viaggio mescalinico e meccanizzato è ammirevole, purtroppo il risultato non è dei migliori. Nell'insieme si raggiunge comunque la sufficienza, la pacchianeria è sfiorata solo in certi passaggi e nel complesso l'album è scorrevole e vanta i suoi picchi. Ma non si può parlare di un buon lavoro, né tanto meno di un capolavoro.

VOTO: 6

Tracklist:
1. Shock in my town
2. Auto da fé
3. Casta diva
4. Il ballo del potere
5. La preda
6. Il mantello e la spiga
7. È stato molto bello
8. Quello che fu
9. Vite parallele
10.Shakleton

sabato 20 novembre 2010

PTU

PTU
Thriller / Noir
(2003)



Un Johnnie To più minimalista del solito, che ammorbidisce anche il tocco noir per costruire un elegante thriller metropolitano. Girato nei ritagli di tempo tra una commedia e l’altra (impiegando quasi due anni per concluderlo), PTU (Police Tactical Unit) rappresenta un unicum nella filmografia del regista. Tutto si svolge nell’arco di una nottata nei vicoli desolati di Hong Kong: il sergente Lo (il solito Lam Suet) perde la pistola d’ordinanza durante il rocambolesco tentativo di arrestare una giovane gang locale. La PTU, capitanata dal sergente Ho (Simon Yam), giunge sul luogo dell’incidente; per evitare che i superiori vengano a sapere dell’accaduto, Lo chiede l’aiuto di Ho per recuperare la pistola ed evitare di perdere la promozione. Le vicende dei protagonisti si intersecano inconsapevolmente a scontri tra clan rivali.
La sensazione di uno scontro a fuoco imminente o di un improvviso capovolgimento di scena, tipica del To a cui si è abituati, è qui sostituita da una calma e una linearità che non permettono alcuna sfuriata. L’azione lascia spazio ad uno svolgimento molto più intimo ed astratto.
Lam Suet è il solito impacciato, con la testa (s)fasciata e la sigaretta perennemente tra le labbra, rappresenta il soggetto più scapestrato, incapace di farsi rispettare. Nonostante questo tenta sempre di imporre la propria autorità, con conseguenze spesso ridicole e umilianti. Il sergente Ho è invece più austero e rigido, dirige una squadra e non si fa scrupoli ad abusare del proprio potere pur di ottenere gli indizi necessari. Simon Yam si cala perfettamente nella parte, grazie alla sua immagine severa ed un carisma magnetico che ricordano molto il Kitano più impassibile. Abbiamo anche una terza figura poliziesca, l’ispettrice Leigh (Ruby Wong) , incaricata di supervisionare il lavoro degli altri colleghi. Ostenta una rigorosità a volte eccessiva che lascia trasparire una certa insicurezza, dettata probabilmente dalla scarsa esperienza sul campo. Il guscio protettivo si spezza nel finale, mettendo in mostra la fragilità nascosta. I rapporti tra i protagonisti, seppur contagiati da inevitabili rivalità, raggiungono il cameratismo, senza che sfori nelle classiche manifestazioni machiste o in spacconate gratuite.



Altra protagonista è la città, il cui alternarsi di aree illuminate e zone d’ombra crea uno stupendo gioco di contrasti, valorizzato da una splendida fotografia. Le indagini notturne sono incorniciate da una colonna sonora vellutata, caratterizzata da melodici giri di chitarra che accentuano l’atmosfera solitaria della metropoli.
L’intreccio si risolve in un finale convergente, dove pianificazione e coincidenza si mescolano in quella che sarà l’unica scena d’azione, regalandoci la classica sparatoria da western contemporaneo tipica di To.
Una pellicola carica di pathos e dal sapore metafisico.

VOTO: 7,5

mercoledì 17 novembre 2010

Paranormal Activity 2

Paranormal Activity 2
Horror / Presa in giro
(2010)



Il primo “Paranormal Activity” ancora non l'ho visto, ma se l'andazzo è lo stesso del seguito credo che ne farò volentieri a meno. Ci sono modi migliori per trascorrere un'ora e mezza, compreso sbattere il mignolo del piede contro spigoli di marmo. Il secondo capitolo della saga (sega?) è un ottimo esempio di presa in giro: come sfruttare il successo precedentemente riscosso senza fare il benché minimo sforzo. È un punto di riferimento se si vuole capire come NON fare cinema (anche se qui la parola “cinema” stride, sfigura, sviene, defunge senza estrema unzione). Taglio pseudo-amatoriale (qualche telecamera a circuito chiuso può considerarsi “amatoriale”?), protagonisti amorfi, storia trita e ritrita, qualche brivido scatenato essenzialmente dal volume assordante nelle scene di poltergeist, finale ridicolo. Un cinema che non è cinema (e che non si citino "Rec" o "The Blair witch project" a sproposito), un horror che non spaventa (né diverte). Tanto per precisare, l'ho visto solo perché sono uscito tardi e non proiettavano altro.
Da ergastolo.

VOTO: 2

lunedì 15 novembre 2010

Michael Swanwick - Cuore d'acciaio

Michael Swanwick - Cuore d'acciaio
Fantasy / New Weird
(1993)



ROZZI CIBERNETICI SIGNORI DEGLI ANELLI
Un romanzo decisamente atipico questo "Cuore d'Acciaio" ("The iron dragon's daughter"). Padrino del New Weird, è da molti considerato il primo vero e proprio romanzo del genere. Michael Swanwick reinterpreta la fantasy decontestualizzandola dalla solita ambientazione medievale, creando un mondo variegato decisamente più vicino alla nostra epoca. Dalle città congestionate alle periferie industrializzate, passando alla spietata e verticistica struttura sociale fino ad arrivare alle tecnologie moderno-futuristiche di chiara contaminazione fantascientifica Swanwick ci immerge in un mondo verosimile ma allo stesso tempo incredibile. Una realtà parallela condita con elementi bizzarri a più non posso; uno sterminato numero di razze che popolano il mondo di Faerie, strutture architettoniche assurde (un lugubre medievale che incontra il moderno), magia che si mescola alla scienza, all'alchimia, all'esoterismo. La storia è quella di Jane, bambina umana rapita e costretta a lavorare nelle fabbriche dei draghi ad alta energia. Qui il suo destino si unirà a quello di Melanchthon, drago da guerra malridotto e divorato da un famelico desiderio di vendetta e distruzione.

IL MONDO DI SWANWICK
La prima cosa che balza all'occhio è la vastezza incredibile dell'ambientazione. I primi capitoli ci introducono nelle già citate fabbriche dove vengono assemblati i draghi da guerra. L'atmosfera è quella industriale tardo-ottocentesca; bambini schiavizzati ridotti a lavorare senza sosta in mezzo allo sporco e alle colate roventi di acciaio fuso, sgrassando enormi pistoni o trasportando avanti e indietro taglienti lamiere arrugginite. É ovvio che l'intento dell'autore è quello di creare una certa verosimiglianza con il nostro mondo, anticipando la spietatezza di questa strana società. Un mondo a tutti gli effetti brutalmente capitalista, che sfrutta il pugno di ferro (senza bisogno di nascondere il manganello) per mantenere stabili le gerarchie. Gli elfi sono padroni assoluti e la giustizia è una barzelletta, ogni loro capriccio può trasformarsi in sentenza di morte. Quando Jane riuscirà ad evadere dalla fabbrica si sposterà prima in una cittadina abbastanza provinciale, poi in una città universitaria ed infine negli ambienti agiati dell'alta società. Di pari passo con la crescita della protagonista assistiamo anche all'ascesa sociale, che la rende sempre più cinica. L'ambiente cittadino alterna località squallide e sporche con centri commerciali, negozietti d'artigianato, mercati, grattacieli, ponti sospesi e via dicendo. È veramente splendida l'idea dell'autore di abbandonare il solito, noioso mondo medievale e fiabesco in favore di una realtà corrotta fino al midollo. Il problema della classica ambientazione fantasy non è tanto in sé, quanto piuttosto nell'abuso che ne è stato fatto negli anni, tale da rendere insopportabile ogni storiella melliflua priva di mordente e dove ogni tono realistico va a farsi benedire. I guerrieri della luce contro i signori delle tenebre, dove il male e il bene sono caratteristiche congenite che non lasciano spazio alla minima riflessione morale né ad una potenziale evoluzione dei personaggi. Leggere sempre di guerre terribili dove non viene mai versata una goccia di sangue né amputato un arto, di malvagi nemici caricature del Dottor Male o di infinite descrizioni di roccheforti inespugnabili sullo sfondo di foreste fatate mi dà ormai la nausea. Swanwick ribalta tutto nel vero senso della parola, senza mezzi termini. Passiamo da un estremo all'altro, il suo mondo è di natura volto alla corruzione, al peccato, alla violenza, al sadismo, all'autodistruzione. A volte i passaggi sono così eccessivi da sembrare un po' forzati, ma comunque coerenti. Ossessivo anche l'attaccamento alla sfera sessuale, chiave di volta del romanzo, Jane scopre sé stessa e gli artifici alchemici sfruttando il coito.
Altro elemento caratteristico è la commistione di magia e tecnologia; Swanwick è egregio nelle descrizioni tecnico-scientifiche, dimostrando un'ottima padronanza dell'argomento. La componente magica è sostanzialmente sfruttata da Jane nel campo alchemico, nel quale si specializza durante gli studi universitari. Gli altri personaggi hanno invece doti magiche intrinseche nella loro natura. Ritroviamo qui ogni razza: nani, elfi, troll, orchi, fate, mutanti, lamie, grifoni e chi più ne ha più ne metta.
Un'ambientazione unica che permette ogni tipo di varietà, senza annoiare il lettore con noiosi scontri a senso unico tra razza buona vs razza cattiva nella terra degli gnomi di meringa.

I QUATTRO FOTTIMENTI: FOTTUTO PER FINITO, FOTTUTO PER INCULATO, FOTTUTO PER FREGATO E FOTTUTO E BASTA
È una battuta di Senecio, un bifolco cavallo meccanico. Quando l'ho letta sono scoppiato a ridere, e non mi succede spesso. Si tratta di un ottimo uso dello scurrile, che se sfruttato nelle giuste dosi e calibrato correttamente suscita un gran divertimento senza risultare banale o infantile (mi è addirittura sembrata una sparata degna del miglior Bukowski). Parlando dell'estremismo di Swanwick, ho notato leggendo qua e là on-line che ha dato non poco fastidio ad alcuni lettori. Sono d'accordo che qualche volta l'autore abbia calcato troppo la mano, ma in generale la volgarità utilizzata ben si adatta al contesto. I giovani sono sempre più o meno sboccati, stesso dicasi per le creature dei ceti medio-bassi, senza contare che il mondo di Faerie è di natura molto eccessivo. Mi sembra piuttosto ovvio che queste caratteristiche si debbano manifestare anche nel linguaggio. È più realistico che un troll rozzo ed ignorante dica “Sciocchi ragazzini, tornate al lavoro!” o “Avanti piccoli bastardi, muovete quelle braccia rachitiche!” ? Ovvio, nella fantasy diabetica non è nemmeno pensabile utilizzare un linguaggio del genere, ma contestualizzandolo in una fabbrica Swanwickiana è azzeccatissimo. Discorso diverso per gli elfi, la cui natura aristocratica è riflessa nella loro raffinatezza, ma non mancano i momenti più volgari che denotano una mancanza di gusto e spesso anche di importanza sociale del personaggio descritto.
L'atmosfera del romanzo è perennemente cinica, la morte ingloriosa una costante, tra suicidi ed overdosi lo squallore prende il sopravvento. Non c'è il benché minimo alone di speranza, arrivismo ed egoismo sono sempre al primo posto. È in questo clima che Jane forgia il suo carattere, inevitabilmente spinto all'estremo da un mondo che la ucciderebbe se non reagisse con la stessa spietatezza. Forse nel corso del romanzo l'evoluzione morale della protagonista è troppo unilaterale, anche se emerge in alcuni frammenti, soprattutto verso il finale, un sentimento positivo covato nel tempo ma che purtroppo non si manifesta se non quando ogni speranza è perduta.
La componente sadica si rivela in diverse circostanze, specialmente legate alla razza elfica. Detentori del potere, lo sfruttano nella sua forma più cruda e umiliante, con una noncuranza agghiacciante, dilettandosi in ogni atrocità. Ad esempio, mentre viene descritto un locale alla moda:

“Dietro al bar c'era un'enorme vasca di vetro, illuminata da una forte luce al neon, mentre il resto del locale era immerso in rosso e porpora. Nella vasca un cavallo stava annegando. Le zampe si sollevavano in nubi di bolle. Aveva gli occhi invasati e iniettati di sangue, allungava il collo per sollevare agonizzanti narici alla superficie agitata. Era uno spettacolo straziante. La musica era lenta e romantica, ma forte abbastanza perché il cavallo lottasse in silenzio.”

Qui il weird si manifesta nella sua vena più angosciante, conferendo un retrogusto agrodolce alla vicenda narrata.

IO SONO LA LANCIA ASSETATA DI SANGUE
Melanchthon è un drago da guerra, una macchina per uccidere e devastare, un sauro di ferro votato alla distruzione. A differenza degli altri draghi pare manifestare una certa individualità: ha un preciso obiettivo follemente nichilista e per portarlo a termine ha bisogno di Jane. Sono i mezzelfi i soli che possono pilotare i draghi; il campo magnetico generato dalla struttura di ferro ed acciaio è cancerogeno per gli elfi. Gli umani possono prendere le redini di un drago senza subire danni, ma vengono sempre sfruttati i mezzelfi perché subiscono un processo di indottrinamento che conduce ad una fedeltà quasi fanatica. I draghi vengono utilizzati per varcare la Porta dei Sogni e rapire donne umane, le quali vengono fatte accoppiare con gli elfi e la cui progenie mezzelfa verrà a sua volta addestrata per pilotare le bestie di ferro. I draghi ad alta energia sono ovviamente fondamentali nelle guerre contro altri regni, di cui però qui non si parla.
La struttura del drago è descritta egregiamente, mettendo in risalto il potenziale bellico. Il pilota entra in una sorta di simbiosi:

“Una telecamera onnicomprensiva si chiuse sugli occhi di Jane. Attraverso il sistema di formazione di immagini virtuali del drago, scrutò in uno spettro più ampio della vista umana, triplicato su nell'infrarosso e prosperante nella profondità dell'ultravioletto. I piazzali erano intricate linee di energia arancione e argento, i muri di mattoni dell'edificio reparti erano scogliere di quarzo purpureo. In alto le stelle erano puntini rossi, arancioni, verdi.
Poi cadde, senza trauma alcuno, nei ricordi del drago, e si trovò a volare a bassa quota su Lyonesse su una colatura di napalm. Nubi rosa sbocciavano nella sua scia, gonfiandosi sopra le verdi foreste pluviali. Sentì il brivido dell'accelerazione ipersonica, il flusso laminare dell'aria sulla superficie delle ali quando eseguì una stretta vite per evitare il fuoco di una piazzola antidrago. Le rotte aeree brulicavano di messaggi audio, urla di rabbia e trionfo da parte dei suoi simili, e dello scambio impassibile delle posizioni dei piloti. Macchie nere apparvero all'orizzonte, uno squadrone nemico decollava rapidamente per incontrarli. Allegramente, Jane si volse ad affrontare la sfida.”


Una descrizione che mette in risalto la superiorità tecnologica dei draghi da guerra e l'euforia dello scontro. I muri come scogliere di quarzo purpuree o le nubi rosa causate dal napalm scatenano una potenza evocativa strabiliante.

PREDESTINAZIONE
Il rapporto tra Jane e Melanchthon, pur essendo molto conflittuale, li condurrà verso lo stesso destino. Nel corso della storia Jane conoscerà alcuni personaggi che si incarneranno successivamente in altre figure per lei fondamentali. C'è un continuo perdersi e ritrovarsi sintomo di una predestinazione dalla quale non si può sfuggire e verso la quale il drago nutre un disprezzo totale; odia l'insensatezza dell'esistenza e vuole porre fine a tutto. Sullo sfondo si annida un senso di impotenza, come se qualcuno (la Dea) giocasse con le vite degli altri; il libero arbitrio è un'illusione. La Dea è la divinità unica e suprema da tutti adorata, che esige tributi di sangue; la Decima è il momento di massimo sacrificio, un periodo di violenze in cui perde la vita il 10% della popolazione.
Il Castello Spirale, luogo oltre il tempo e lo spazio, è un'enorme conchiglia che poggia su un oceano infinito; qui risiede la Dea. Si oltrepassano i limiti del reale, anche per l'immaginazione è difficile concretizzare un non-spazio in un non-tempo; le tre dimensioni a cui siamo abituati si moltiplicano e si intersecano.

DIFETTI
Il romanzo non è esente da difetti, principalmente legati all'intreccio. La storia si dilunga troppo in passaggi non propriamente interessanti, seppur sempre dotati di una buona carica di sense of wonder. Lo scioglimento si fa un po' troppo lento e congestionato, il filo del discorso sembra a volte venire meno e si rischia di perdere nella narrazione alcuni elementi chiave. Ovviamente non sto dicendo che sia scritto male, manca solo di una certa fluidità che l'avrebbe reso molto più scorrevole. Di fatto lo stile di Swanwick non è semplicissimo, in quanto condito da numerose spiegazioni tecnico-scientifiche, rimandi filosofici e descrizioni calcolate. Ma questo non è un difetto, anzi, siamo di fronte ad ottime capacità narrative.
Avrei anche preferito una maggiore centralità del drago Melanchthon; resta pur sempre il co-protagonista, ma si tratta di un protagonismo sostanzialmente limitato all'inizio e alla fine del romanzo. C'è però da dire che questa mancanza accentua maggiormente i momenti di presenza, rendendoli ancora più emozionanti e al fulmicotone.
Infine non ho apprezzato molto il finale, un po' troppo semplicistico e spento, seppur in tinta con il grigiore che permea l'intero romanzo.

In definitiva ritengo “Cuore d'acciaio” un libro decisamente consigliato, che avrebbe potuto essere un vero e proprio capolavoro se avesse goduto di un pizzico di azione e di scorrevolezza in più; ma è comunque un romanzo molto valido e originale, lontano anni luce dagli stilemi stantii della solita “fantasy” cialtrona. Reperitelo come potete (visto che è fuori catalogo da 15 anni), anche se non vi piacerà particolarmente vi colpirà per qualcosa. Weird allo stato brado.

VOTO: 7,5

lunedì 8 novembre 2010

Philip K. Dick - I giocatori di Titano

Philip K. Dick - I giocatori di Titano
Fantascienza
(1963)



“I giocatori di Titano” (1963) è spesso considerato un punto basso nella produzione di Dick, principalmente perché offuscato dal precedente “L’uomo nell’alto castello” (o “La svastica sul sole”, del 1962) e dalle successive quattro opere pubblicate nel 1964 (“Noi marziani”, “I simulacri”, “Follia per sette clan”, “La penultima verità”). Inoltre le caratteristiche che renderanno l’autore celebre ed originale nel panorama fantascientifico, quali la psichedelia o i flebili confini spazio-temporali che non permettono di distinguere la realtà dall’allucinazione, sono ancora abbozzate. I deliri psicotici a cui il lettore dickiano si è abituato leggendo altre opere qui non risaltano particolarmente, pur essendo alla base della narrazione. Nonostante questo mi sento in dovere di smentire i pareri negativi (o comunque poco entusiasti); ho trovato il romanzo molto scorrevole, scritto con uno stile diretto ed efficace.
“I giocatori di Titano” narra di un futuro non troppo lontano in cui i terrestri, decimati e ridotti all’impotenza a causa di radiazioni nucleari, si trovano in una fase di pace apparente con i Titaniani. Questi, i vug, amorfe amebe gelatinose e telepatiche, hanno importato sulla terra il gioco del Bluff, un misto tra monopoli e poker, gioco in cui i partecipanti (detti Vincolati) scommettono soldi e proprietà reali. Nel corso della storia i protagonisti si trovano invischiati in una cospirazione che coinvolge frange estremiste titaniane ed esseri umani dotati di capacità telepatiche e di preveggenza. L’intera vicenda convergerà nell’ovvio finale in cui gli esseri umani si contendono il futuro del pianeta contro i giocatori di Titano.

Psichedelia: come già accennato anche in questo romanzo la psichedelia è un elemento fondante. Il protagonista, Peter Garden, soffre di crisi depressive e ricorre di continuo a pillole e pasticche per riprendersi, spesso mischiandole all’alcool. Saranno questi mix, pericolosamente letali, ad offrirgli potenziali chiavi di lettura ai misteriosi avvenimenti. Chiavi di lettura ovviamente distorte, che lasciano sempre un (ampio) margine di dubbio, i confini del reale cedono. Non si tratta di estremismi in stile “Le tre stimmate di Palmer Eldritch” ed anche il finale è sostanzialmente univoco. Ma i passaggi deliranti di visioni lisergiche, in cui i concetti di spazio e di tempo vengono meno, sono degni del più grande Dick.

Stile: Dick scrive bene, non ci sono dubbi. Non è uno scrittore di fantascienza “classica”, non è alla ricerca del sense of wonder tramite descrizioni meravigliose di pianeti o razze aliene. Dick punta ad altro, vuole rendere terribilmente fantastico il suo mondo visionario terrorizzando e spiazzando il lettore, abbattendo i punti di riferimento e disorientando, stordendo. Ambienta le sue storie sulla Terra, in particolare negli Stati Uniti. Una Terra non molto diversa del nostro presente, fatta qualche eccezione. Per questo non si sofferma sull’ambientazione o sulle tecnologie, ma veicola il racconto verso altri elementi. In un attimo riusciamo ad immergerci in un mondo verosimile, a fianco di personaggi rappresentati efficacemente e coerenti con il comportamento che ci viene delineato nel corso della narrazione. Ne “I giocatori di Titano” c’è tutto questo, fatta eccezione per alcuni personaggi (fondamentali) quali Joe Schilling e Mary Anne che alla fine della storia restano ancora abbastanza enigmatici. Mi aspettavo uno stile più acerbo e invece sono rimasto piacevolmente sorpreso.

Precognizione, telepatia: le capacità di preveggenza e di telepatia di cui sono dotati alcuni personaggi fanno oscillare costantemente l’intreccio. A volte crediamo di avere trovato la soluzione per poi vederla infranta, sostituita da un altro futuro possibile. Queste doti eccezionali contribuiscono a mantenere teso e imprevedibile quello che di fatto è una sorta di giallo in salsa fantascientifica. Non sempre vengono sfruttate al meglio, ma sostanzialmente alimentano l’efficacia narrativa. Senza considerare che vanno a fondersi con l’atmosfera allucinogena di cui si è già detto.

Alieni e giochi: i Titaniani, detti vug, sono alieni telepatici informi, simili ad amebe. I tratti semplicistici ed apparentemente bonaccioni ben si prestano al contesto, quello del gioco. Lo scontro si svolge sul campo di guerra del Bluff, ma non mancano i momenti più violenti in cui l’estremismo titaniano prende il sopravvento. L’importazione del Bluff relega gli esseri umani a uno stato di pace apparente, mentre in realtà il dominio extraterrestre è continuo e costante, ai danni degli esseri umani inermi, troppo presi a giocare. L’unico sensibile, o potenzialmente tale, è il protagonista Peter, tanto che soffre di depressione; alle radici di questa depressione c’è un qualcosa di poco chiaro, che si può riscontrare in un dubbio cosmico sulla realtà delle cose.

Guerra fredda: sullo sfondo emergono le preoccupazioni dell’America degli anni ’60, il terrore nucleare e l’astio verso sovietici e cinesi. I responsabili del disastro nucleare sono infatti i cinesi comunisti... o almeno così si è sempre pensato.

In definitiva si tratta di un buon romanzo, in cui l’intreccio si scioglie bene. Non è il migliore Dick, ma è una lettura godibile da non sottovalutare per i contenuti più "leggeri".

VOTO: 7,5

sabato 6 novembre 2010

Le città della mente

Le città della mente
Tempere di Karel Thole per i romanzi di Urania

(2010)
Catalogo



Ho comprato recentemente questo libro, una raccolta di diciannove illustrazioni (più alcune extra) del grande disegnatore olandese che ha contribuito a fare la fortuna di Urania. Il prezzo è un po’ troppo alto (15 euro!) ma mi sono tolto lo sfizio di avere in mano qualche illustrazione di Karel. È un’edizione limitata a 1000 copie, distribuite dalla casa d’aste “Little Nemo” in occasione del decennale della scomparsa dell’artista. L’asta era stata esposta dal 18 al 24 Marzo 2010 a Torino. La cosa più imbarazzante è che Urania non abbia minimamente commemorato la scomparsa di Thole, uno zero assoluto assolutamente vergognoso. Vergognoso quanto la notizia trapelata nell'ultimo periodo, riguardante la politica dei tagli applicata da Urania a danno dei romanzi. La casa editrice, da sempre considerata la numero uno in Italia, nonché pionieristica in quanto ha sdoganato la fantascienza nel Bel Paese, ha tranquillamente confermato quelle che erano solo voci di corridoio. I tagli, nell’epoca pre-Lippi, erano all’ordine del giorno, tagli fatti alla bell’e meglio e decisamente abbondanti. Come un fiume in piena sono trapelate altre indiscrezioni, legate soprattutto ai metodi di traduzione, molto grossolani. La giustificazione della casa editrice è in sostanza che i romanzi di fantascienza sono semplice evasione e i lettori appassionati non sono esperti di letteratura (a detta loro ovviamente), quindi non hanno pretese e la bassa qualità è tollerabile! Si salva la serie dei classici, a quanto pare sono edizioni integrali. In definitiva una gran porcata, ho circa 250 numeri Urania, la maggior parte degli anni 70 e 80, di cui solo una cinquantina sono “classici”. Credo che gli altri non li leggerò mai.


(Agonia della terra - Edmond Hamilton)

Tornando al libro in questione devo dire che le illustrazioni non sono proprio le migliori (un paio direi anche bruttine), ma siamo comunque di fronte ad un grandissimo artista, estremamente visionario e dal tratto psichedelico e ironico. Anche quando le immagini non sono strettamente fantascientifiche Thole riesce lo stesso a stupire. Sarebbe stupendo se venissero pubblicate tutte le tempere, considerata anche la massiccia produzione. On-line è molto difficile trovare immagini di buona qualità (quelle qui allegate sono sbiadite e piccole, non si trova di meglio purtroppo).
Se volete un ricordo del leggendario Thole l’acquisto è consigliato.


(Su e giù per il tempospazio - John Wyndham)



(La città del lontanissimo futuro - M. John Harrison)

lunedì 4 ottobre 2010

Valhalla Rising

Valhalla Rising
Drammatico
(2009)



Interessante produzione scandinava del danese Nicolas Winding Refn, Valhalla Rising ci scaraventa in un medioevo malsano e brutale. L’incipit potrebbe appartenere ad un classico film d’azione all’arma bianca, uno schiavo costretto a combattere in incontri all’ultimo sangue. In realtà siamo di fronte ad una pellicola molto statica e visionaria, caratterizzata da passaggi onirici e allucinatori. Il protagonista (Mads Mikkelsen), uno schiavo guercio che non proferisce mai alcuna parola, è un feroce combattente, ha trascorso tutta la sua vita in catene sfruttato come lottatore nelle scommesse tra tribù. Un giorno riesce a liberarsi, massacrando tutti i suoi aguzzini tranne il giovane ragazzo che quotidianamente gli medicava le ferite. Siamo nel bel mezzo dell’invasione cristiana, che si fa largo con l’acciaio, il paganesimo nordico sta appassendo cedendo il posto al Dio bianco. Sulla strada i due incontrano un manipolo di cristiani, decisi a partire per la Terra Santa. Il ragazzino battezza il guercio “One Eye” e diviene la sua voce, parlando a nome suo. Decidono di aggregarsi ai cristiani, ma durante la rotta una terribile nebbia impenetrabile manifesta un oscuro presagio. Dopo giorni e giorni di viaggio raggiungono una terra apparentemente disabitata, rendendosi conto di non essere a Gerusalemme. Il capo del gruppo si convince di essere stato messo alla prova da Dio e si infiamma in un delirio fanatico. Da questo momento l’eccitazione allucinatoria, scatenata da un liquido tracannato a turno da tutti, prende il sopravvento.
Si tratta di una produzione decisamente atipica, che potrebbe annoiare chi è alla ricerca di combattimenti e azione dura e pura. A parte i primi venti minuti, in cui il protagonista ci dimostra la sua spietata abilità guerriera, il film prosegue lentamente, con scarsi dialoghi e scene d’azione quasi inesistenti. Una splendida fotografia rende ogni scena una goduria per gli occhi, si respira un’atmosfera onirica che esplode nei brevi istanti visionari del protagonista, patinati di un rosso sanguigno e viscerale. È abbastanza chiaro il parallelismo con Odino, il padre degli dei della mitologia norrena, anche lui con un solo occhio (One Eyed God). I toni profetici sono perfettamente in linea con la religiosità nordica, caratterizzata da un destino ineluttabile al quale nessuno può sottrarsi e verso il quale non si nutre alcun timore. One Eye ha visioni di morte, compresa la propria. Combatte senza alcuna paura e va verso la propria fine senza opporre resistenza. È in questo momento che la Valhalla inizia a manifestarsi, la mitica sala dove i guerrieri vengono accolti dopo la morte. È anche abbastanza evidente la critica al fanatismo cristiano, che porta all'annientamento dell’intero gruppo. Estremamente suggestivi i paesaggi, sia le brumose terre del nord che le primordiali lande americane, il clima plumbeo onnipresente è amplificato dalla natura vergine e selvaggia. Aleggia anche un sentore di bluff in seguito alla bevuta comune dell’allucinogeno; il paesaggio circostante si trasforma, tornando ad essere quello uggioso e brullo del Nord Europa. Se in realtà non fossero mai partiti o se fossero morti durante il viaggio, se fosse tutto un sogno? Non ci è dato saperlo, è abbastanza chiaro l’intento di lasciare in sospeso gli interrogativi che nascono nel corso della narrazione, volutamente criptica.
Introspettivo, psichedelico, spietato.

VOTO: 7,5

sabato 2 ottobre 2010

Once Were Warriors - Una volta erano guerrieri

Once Were Warriors - Una volta erano guerrieri
Drammatico
(1994)



Ho visto questo film tre volte e tutte e tre le volte continuavo a dirmi che prima o poi sarei arrivato alle scena che non mi sarebbe piaciuta, che da un momento all’altro ci sarebbe stato un calo, che avrei avuto da ridire su qualcosa. La prima volta anche con l’enorme timore che tutto si sarebbe concluso nella solita minestra melliflua buonista. Ero sempre lì a chiedermi se non mi fosse sfuggito qualcosa, se ero stato attento durante la visione precedente. E sono contento di non essermi sbagliato minimamente. Lo vidi per la prima volta poco più di un anno fa, un film culto di cui avevo sentito parlare con toni entusiastici, apprezzato da una cerchia non proprio underground ma comunque abbastanza limitata. Lo rividi poi un paio di altre volte nel giro di un anno. Niente, impeccabile. È diventato uno dei miei film preferiti, entrato di prepotenza nella mia personale lista (metamorfica!) dei dieci titoli che porterei con me se venissi confinato ad vitam su Urano.
Regia di Lee Tamahori, Once were Warriors è tratto dal romanzo omonimo di Alan Duff (introvabile, almeno in italiano), ambientato nella Nuova Zelanda dei primi anni novanta. È il ritratto dello squallore di vite emarginate e precarie, distrutte dall’alcool e dalla violenza. La famiglia protagonista è succube di un patriarca violento, Jake “The Muss” Heke (Temuera Morrison), italianizzato in Jake la Furia, conosciuto e temuto in tutta la città per la sua particolare aggressività. Alcolizzato e senza lavoro fisso, ha sfornato cinque figli di cui non si cura minimamente, a stento si ricorda della loro esistenza. La moglie, Beth, è profondamente innamorata, nonostante le violenze che subisce quotidianamente. La situazione diverrà sempre più tesa, il quadro famigliare sempre più incrinato. I due figli maggiori vivono di espedienti, il più grande si unisce a una gang locale, il più giovane inizia a commettere i primi furti fino a quando non viene portato via dalla famiglia, giudicata incapace di crescerlo. La figlia più grande si occupa dei due giovani fratellini, raccontandogli favole e rimboccandogli le coperte ogni notte. È una ragazza immacolata, candida, innocente, incapace di concepire il mondo brutale in cui è stata scaraventata, perennemente infelice e afflitta da una situazione famigliare che la terrorizza e da un mondo esterno che non le offre nulla se non altrettanta disperazione. È l’unico personaggio che incarna a tutto tondo aspetti positivi, che stridono con il contesto. La sua positività verrà completamente spazzata via dalla violenza carnale che subirà in silenzio, mortificandola, senza che nessuno se ne accorga. La madre Beth è un personaggio cardine che dovrebbe rappresentare un equilibrio (molto precario) ma che di fatto si ritrova sempre incapace di fronteggiare l’ira del marito, contribuendo a rendere la situazione invivibile. Tutto si risolverà solo nel dramma finale, apoteosi tragica dell’intera pellicola, riassunto straziante della disperazione e della miseria umana.
Il titolo, “Una volta erano guerrieri”, incarna un filo diretto tra passato e presente, il decadimento di un’etnia dignitosa e guerriera, quella Maori, che in seguito alla colonizzazione inglese si ritrovò assoggettata a dominatori che corrosero gli animi con alcool e schiavitù. Una volta erano guerrieri, poi schiavi, ora dei cani che si contendono le briciole di ciò che è rimasto, incapaci di veicolare la propria rabbia e frustrazione se non contro le persone più care e più vicine.
Il momento topico e sublime dell’intera pellicola è racchiuso in un solo minuto, la gita in famiglia dopo una temporanea riappacificazione, sulle note di “What’s the time Mr.Wolf” dei Southside Of Bombay, una scena da brividi non tanto in sé ma dal momento in cui viene rapportata all’intera vicenda, uno sputo di felicità dal retrogusto doloroso.
Affresco spietato e drammatico di una realtà miserabile, stupendamente tragico.
Capolavoro.

mercoledì 29 settembre 2010

Starship Troopers - Fanteria dello Spazio

Paul Verhoeven è un regista un po’ controverso, ha realizzato diverse pellicole di dubbio gusto ed alcune altre che si sono conquistate un posto nel cuore degli amanti del cinema d’azione fantascientifico (Atto di Forza e RoboCop). Tratto distintivo è la particolare violenza sfruttata dal regista, le scene d’azione sono spesso segnate da uno splatter non eccessivamente sanguinolento ma comunque molto disturbante. Il cast è solitamente scelto selezionando attori agguerriti e caratterizzati da tratti rudi, in linea con l’immaginario battagliero. Non si tratta di individui infimi à-la Seagal, ma di discreti attori con buone capacità espressive che ben si inseriscono nel contesto virilmente spietato. Diamogli in mano un mitra e il gioco è fatto.
È una breve premessa necessaria che ho deciso di inserire per anticipare una tematica un po’ ostica, che sostanzialmente riguarda la qualità di un film. Come si può (o si deve) giudicare un film? È corretto utilizzare come paragone il cinema in generale o è utile sfruttare una divisione in generi? Non solo, il film va spogliato dalle intenzioni del regista e valutato in un’ottica più “estetica” o è necessario inquadrare il punto di vista del creatore? È possibile paragonare la nuova era cinematografica (ma anche artistica in generale), l’era del “è già stato detto tutto in tutti i modi”, con gli albori e le prime evoluzioni cinematografiche (e artistiche)? Insomma, credo che di carne al fuoco ce ne sia molta e ho qui delineato giusto alcuni spunti di valutazione che ritengo fondamentali. Mi orienterò essenzialmente su questi. Prima di tutto, per dare un’idea ampia, credo che sia la componente oggettiva che quella soggettiva siano necessarie (ma va?), ma c’è una relazione molto strana e ambigua tra le due. Il de gustibus è una frase fatta che può essere sfoggiata solo in seguito ad un buon scambio di vedute e di argomentazioni, usata in partenza è solo una banale pacchianata adoperata da chi non sa motivare. E badate che in larga parte anche le motivazioni soggettive sono motivabili. Per quanto riguarda l’aspetto più oggettivo, credo derivi soprattutto dalla conoscenza e dall’esperienza. Avere una (anche minima) padronanza di un determinato argomento significa averlo analizzato, studiato o comunque trattato con frequenza nel tempo, solitamente perché spinti da passione. È in questo momento che anche i gusti iniziano a cambiare, più o meno lentamente, pur mantenendo un “nucleo di invarianza” che può anch’esso mutare nel tempo, con maggiore difficoltà. Ma capiterà comunque di vedere un film, coscienti delle grosse mancanze che presenta, e dare un giudizio positivo per motivi più inconsci, personali e intimi. Quindi, da un lato assistiamo a due estremi, l’estrema razionalità nel giudizio e una valutazione molto “passionale” e soggettiva, di mezzo abbiamo una scala di valori che vede la cooperazione del lato soggettivo con quello oggettivo, capaci di influenzarsi a vicenda ma con una certa predominanza del lato oggettivo. Questo negli aspetti più dettagliati: se siamo appassionati di fantascienza perché è un genere che intimamente riesce a farci provare determinate emozioni (passione duratura nel tempo, il già citato “nucleo di invarianza”) stiamo parlando di un gusto soggettivo abbastanza generico. La differenza è che alimentando la nostra passione svilupperemo una più profonda analisi critica e daremo valutazioni più oggettive (e dettagliate) riguardo i film di fantascienza. Passiamo ora al secondo punto, un film è relazionabile e confrontabile genericamente con ogni altra pellicola prodotta nella storia del cinema o il campo va ristretto a titoli e a generi più o meno specifici? Questo è un argomento abbastanza lungo da trattare, ci sarebbero da tenere in considerazione moltissimi aspetti, a loro volta molto sfaccettati. Detto molto in breve, ritengo fondamentale considerare un film in rapporto ad un determinato genere, sia per semplicità, sia per quanto riguarda l’intenzione e le pretese dell’autore. Non ha alcun senso paragonare un prodotto essenzialmente finalizzato a divertire e intrattenere con un’opera elaborata attorno a tematiche più “alte”, quali la critica sociale, la natura umana, il senso della vita e via dicendo. Stiamo parlando di intenzionalità: un film d’avventura non ha alcuna intenzione di essere preso in considerazione per quello che non è, bensì per il lato (ma dai!) avventuroso. Un film d’azione non va analizzato da un punto di vista metafisico o trascendentale, non ha proprio alcun senso. Quindi mi sembra chiaro che un “Otto e mezzo” di Fellini non può essere paragonato a un “Die Hard”. Sembra di parlare di ovvietà, ma assicuro che non è così, paragoni del genere si sentono molto spesso. Senza considerare inoltre che non sempre (anzi, tutt’altro!) si riesce a realizzare bei film sfruttando tematiche “alte”. È facile cadere nel pacchiano e nel retorico, tanto quanto è facile scadere nel ridicolo con film più semplicistici. Ho detto che si devono tenere in considerazione anche le intenzioni dell’autore (e qui riprendo il terzo punto di domanda). Questo non vuol dire che se un film fa schifo si salva perché era volontà del regista fare un film orrendo, l’impronta del regista non è un salvagente. È però un dato da tenere in considerazione in determinate circostanze, soprattutto quelle più dubbie e controverse; Starship Troopers è un ottimo esempio. L’elemento goliardico inserito da Verhoeven per criticare la guerra non sminuisce la pellicola in sé, né è intenzione del regista prendersi gioco del libro di Heinlein. L’ironia di fondo è calibrata correttamente, eccessiva solo nei momenti opportuni, e va quindi a giocare un ruolo fondamentale. Il regista vuole realizzare un film d’azione molto splatter ambientato in un futuro estremamente militarizzato. Per quale motivo dovrei partire prevenuto, analizzandolo partendo da premesse che non c’entrano assolutamente nulla e che vogliono solo fare polemica o finto elitarismo da erudito?
Per concludere, spesso ci si chiede se è il caso di paragonare film ormai storici con le recenti produzioni, se la nuova modernità presenta gli stessi valori sia estetici che contenutistici rispetto al passato. Credo che una buona parte della risposta risieda nel tempo stesso, non è possibile valutare immediatamente un film a 360°, sarà il tempo a determinare la sua importanza grazie all’impatto e all’influenza che ne conseguiranno (o che non ne conseguiranno affatto). C’è da dire anche molto semplicemente che ostentare la difesa dei grandi classici sminuendo le nuove leve è da perfetti idioti: in primis perché ciò che è classico lo è diventato nel tempo e non è nato tale, in secondo luogo perché è spesso una presa di posizione aprioristica odiosa, infine perché la stasi porta al ristagno, è l’innovazione (con tutta la sua carica corrosiva, contaminante o trasgressiva) che genera la novità e la differenza. La differenza, sapere che il film che sto per vedere non è la stessa minestra che mi sono già sorbito cento volte. Non è una bella cosa? A me sembra proprio di sì. Ultima considerazione, credo che l’epoca in cui è stato girato un film possa essere considerata una sorta di genere anch’essa. Un determinato contesto storico presenta una specifica realtà, caratterizzata da una certa società, da un certo pensiero comune, specifiche tecnologie e via dicendo, tutto un particolare modo di percepire e di vivere la vita che influenza a sua volta le intenzioni del regista e il taglio dato al film.
Questa voleva essere una semplice sintesi volta ad esplicare alcuni criteri di valutazione più o meno condivisibili, personalmente la mia esperienza mi ha portato a certe conclusioni che ritengo adattabili in svariati contesti. Ho deciso di scriverla come introduzione alla recensione di Starship Troopers perché si tratta di un film singolare che si trova ad un estremo, cioè quell’estremo a cui comunemente corrisponde uno zero artistico (o comunque valutazioni mediocri). Io non sono assolutamente d’accordo e posso dimostrare (o almeno provarci) che un film sostanzialmente vuoto di contenuti può dimostrare un valore artistico notevole.

Starship Troopers
Azione / Fantascienza / Splatter
(1997)



In un futuro non troppo lontano la terra è controllata da gerarchie militari e vige un regime reso impalpabile dalla propaganda mediatica lobotomizzante. Una guerra incombe: una razza aliena, gli aracnidi, minacciano la stabilità del pianeta Terra, ostentando aggressività ed intenzioni belligeranti. I coraggiosi fanti spaziali avranno l’incarico (l’onore!) di difendere la patria e la propria specie.

AMBIENTAZIONE: Klendathu, il pianeta degli insetti, è una distesa arida e brulla, ricca di cave e formazioni rocciose sopra le quali di giorno batte un sole incandescente. Per le riprese è stato scelto “Hell's Half Acre”, nel Wyoming. L’ambientazione scarna e desolata appare forse fin troppo minimale, ma di fatto offre un campo di battaglia senza via di scampo, l’umano dato in pasto alle belve non ha rifugio ed è costretto a scontrarsi con il nemico alieno. Non c’è possibilità di fuga né di copertura. Il soldato indottrinato e sfruttato come carne da macello appare qui nella sua forma più evidente e umana, dove o è spinto da furore guerriero e si getta a capofitto nella mischia, inebriato, o volta le spalle al nemico, terrorizzato, in una ritirata impossibile. Una scelta azzeccata molto efficace nella sua semplicità.

COSTUMI: Robert A. Heinlein ha creato l’esoscheletro, una struttura che massimizza le abilità di guerra e si rivela un efficace strumento di difesa e d’assalto. Ma nel film è stata fatta un’altra scelta, probabilmente perché una riproduzione fedele sarebbe stata troppo ingombrante e dispendiosa. Semplicemente il fante ha una divisa leggermente imbottita e corazzata che lascia un’ottima libertà di movimento, fattore fondamentale nelle scene più spettacolari. Il design è ottimo, se non praticamente perfetto. Stesso dicasi per le armi, i fucili mitragliatori in dotazione sono di quanto più efficace si potesse realizzare. La semplicità anche stavolta si è rivelata il metodo migliore, garantendo un’immagine estremamente funzionale, dal sapore futuristico e militaresco, senza strafare col rischio di ridicolizzare con i soliti eccessi giustificati dal “ma è fantascienza!” (quindi tutto è possibile ed ogni cosa esagerata è sensata!). Le divise degli ufficiali e dei piloti sono le classiche uniformi elegantemente gerarchiche, il rimando alla seconda guerra mondiale (al Terzo Reich) è evidente.

SCENOGRAFIA: la prima parte si svolge soprattutto nel campo di addestramento, la seconda in avamposti abbandonati di Klenadathu e su astronavi. Si ripete anche qui lo sfruttamento di elementi classici ma ben realizzati, senza eccessi inutilmente stravolgenti, la semplicità è ben calibrata e la realizzazione degli spazi è gestita come si deve. Il campo d’addestramento è il solito che potremmo vedere nel nostro XXI secolo, gli avamposti sono rudimentali e costruiti alla bell’e meglio con materiale principalmente ferroso, gli interni sono asettici e tecnologici quanto basta. È chiaro che non sono gli eccessi quasi barocchi a caratterizzare Starship Troopers, il parallelismo con seconda guerra mondiale, attualità e futuro imminente è evidenziato da scelte stilistiche che non vogliono sconvolgere lo spettatore con roboanti agglomerati di lamiera.

COLONNA SONORA: la colonna sonora è probabilmente una delle migliori mai realizzate, trasuda epicità da ogni nota. Composta dal grandissimo Basil Poledouris, incarna perfettamente l’ardore battagliero che infervora gli animi dei soldati, rulli di tamburi militareschi sui quali si innalza un mastodontico muro di suoni. Da brividi.

EFFETTI SPECIALI: anche qui siamo di fronte ad una componente sensazionale. L’attenzione dedicata alla costruzione di effetti speciali spettacolari ma realistici è stata fondamentale. Il livello epico e distruttivo è reso alla massima potenza, esplosioni, smembramenti, fuoco alieno e altro ancora sono realizzati con destrezza, non si poteva chiedere di meglio.

L’AZIONE:
gli scontri con gli aracnidi sono caratterizzati da una componente terribilmente disfattista. Il fante sa che in uno scontro frontale difficilmente può riuscire ad abbattere il nemico, capace di resistere a diverse raffiche. Si genera in questo modo una sensazione agghiacciante, vedere malcapitati esseri umani che si lanciano all’assalto contro alieni dalla ferocia inaudita è veramente angosciante, soprattutto considerando la fine brutale alla quale vanno incontro. È qui che la violenza ultra-splatter prende il sopravvento, gli umani vengono letteralmente fatti a pezzi dagli aracnidi, che si avventano in gruppo su singoli malcapitati smembrandoli e scagliando i brandelli in ogni dove. Il senso di impotenza e di sadismo è quasi nauseante. Poche volte ho assistito ad una carica violenta di simili livelli. Non mancano ovviamente i momenti di protagonismo dei nostri eroi, che fanno assaggiare piombo su piombo alle bestie e in alcune scene si cimentano in azioni spettacolari da medaglia d’oro al valore militare.

I PROTAGONISTI: qui si passa ad un altro aspetto molto criticato, il cast di serie B. In effetti non siamo di fronte a livelli di recitazione molto alti. Ma quanto importa? Quello che serve è rappresentare rudi veterani e ragazzi prestanti di belle speranze pronti a servire la patria. Militari cinici devoti al mito della violenza, senza troppe pretese intellettuali, praticamente lobotomizzati da una società dittatoriale. L’aspetto ironico svolto dalla ridondante propaganda rende ancora più evidente la necessità di sfruttare personaggi piatti e indottrinati. Questo per quanto riguarda la “bassezza” tematica e la mentalità uniformata che accomuna ogni protagonista. Passando all’aspetto prettamente recitativo è vero che non si tratta di grandi interpretazioni ma non è neanche il caso di parlare di tragedia: il livello si mantiene sulla sufficienza, innalzandosi di tanto in tanto. Menzione a parte per il valido Michael Ironside, un attore sopra la media e dotato di buon talento. Ma anche Clancy Brown e Neil Patrick Harris fanno la loro parte, così come la discreta Dina Meyer. Insomma, diciamo che è l’attore principale, Casper Van Dien, a suscitare le maggiori perplessità, con la sua faccia quadrata da contadinotto dell’Iowa un po’ tonto. Ma è un protagonista che comunque incarna molto bene un aspetto di facciata della futura società, un giovane atletico dal bell’aspetto e con poco cervello che diventa un eroe della federazione e sprona i giovani a seguire le sue orme. La recitazione in un film come Straship Troopers assume un ruolo più marginale rispetto ad altre componenti (ribadendo comunque che il film si mantiene su livelli discreti). Nonostante questo i personaggi, nella loro semplicità, risultano comunque abbastanza magnetici e coinvolgenti, dotati in alcuni casi di grande carisma (vedi il tenente Rasczak).
Predator è diventato un gran film di fantascienza ma non mi pare che la recitazione fosse migliore. O sbaglio?



GLI ARACNIDI: i nemici, gli alieni, sono stati realizzati egregiamente, anche qui non mi sarei aspettato di meglio. L’aspetto non è quello di un comune ragno, ma è più “muscoloso” e geometrico, squadrato, meccanico. Le zampe sono acuminate, taglienti, trafiggono sterni e crani. In linea con la ferocissima aggressività che li caratterizza.



L’IRONIA: la volutamente eccessiva militarizzazione, l’esasperante e snervante propaganda, l’incessante indottrinamento, oltre ad essere l’ossatura dell’intero film, sono sintomo di un’ironia più o meno evidente. In un’intervista Verhoeven dichiara che è una critica alla politica guerrafondaia americana che vuole sempre scovare un nemico da combattere per distrarre le menti dei cittadini (in realtà chi distrugge Buenos Aires?). È evidente che non c’è alcun intento propagandistico da parte del regista che, seppur da sempre affascinato dalla violenza, non si è mai sognato di esaltarla.



SFATIAMO ALCUNI MITI:
1. Il film di Verhoeven NON è una trasposizione del libro di Heinlein, così come Atto di Forza NON era una trasposizione del racconto di Dick. Si tratta di ispirazioni, spunti, idee di partenza. Starship Troopers, oltre a prendere il nome, estrapola dal romanzo solo una parte, che sostanzialmente fa da sfondo all’intera storia, cioè la guerra contro gli aracnidi. Verhoeven (e soprattutto lo sceneggiatore Edward Neumeier) volevano girare un film di fanta-guerra con “insetti alieni”, ispirati in primis da vecchi film di sci-fi, e hanno trovato un ottimo spunto nel romanzo di Heinlein. Quindi è inutile parlare di fedeltà o infedeltà, non c’era alcuna intenzione da parte degli autori di portare sullo schermo il capolavoro dello scrittore americano.
2. Non c’è niente di fascista in questo film e basta ritornare al paragrafo precedente sull’ironia per capirlo, ma vorrei anche aggiungere che trovo ridicolo attribuire al regista un legame ideologico con l’immaginario che crea. Non è sempre così ovviamente, è possibile e accade spesso che un regista inserisca punti di vista personali più o meno espliciti. Ma non è assolutamente il caso di Starship Troopers, da cui non traspare assolutamente una visione positiva della società che viene rappresentata. Lo stesso Heinlein fu accusato di fascismo, al che rispose che attribuire all’autore pensieri del narratore o dei protagonisti è da idioti. Stesso dicasi per il film.

In definitiva ritengo Starship Troopers un capolavoro di azione fantascientifica in salsa splatter, un gioiello incompreso e fin troppo calunniato, mentre mi tocca assistere ad esaltazioni di una merdosa pacchianata come Avatar, quintessenza dell’esagerazione fine a se stessa e di cliché noiosissimi, costruito su uno sfondo (auto)citazionista (plagi?) imbarazzante.

Avanti Leoni, volete diventare degli eroi?!

giovedì 23 settembre 2010

The Host

The Host
Monster movie / Commedia drammatica
(2006)



Ne ho sentito parlare bene molto spesso, quindi mi sono deciso a vederlo. Questo "The Host" (o "Gwoemul") è un monster-movie sud-coreano piacevole e divertente, che mischia all'horror una buona dose di commedia a tratti demenziale. Una creatura enorme e ripugnante emerge da un fiume seminando il terrore in città, come si deduce dall'incipit è la conseguenza dell'eccessivo inquinamento delle acque. Durante la sfuriata uccide diverse persone e prima di ritornare al fiume rapisce una ragazzina. Il padre, assieme a fratello, sorella e pater-familias scopre in seguito che è ancora viva. Il paese è in stato d'assedio ma la famiglia riesce ad organizzarsi alla bell'e meglio per salvare la bambina, avventurandosi in una spedizione nelle fogne della città, dove si nasconde la creatura.
Il film alterna momenti d'azione e di tensione a scene grottesche, in cui la componente drammatica (la disperazione dei famigliari) è resa praticamente ridicola dai protagonisti, che con una serie di battute, espressioni facciali e atteggiamenti idioti sdrammatizzano l'atmosfera. L'ambientazione sporca e grigiastra e le tinte uggiose contribuiscono a creare un senso di disagio costante; anche il luogo di caccia, l'impianto fognario, è realizzato piacevolmente, una struttura di cemento labirintica ricca di anfratti e tunnel. La creatura, interamente digitale, riesce ad essere molto realistica, senza scadere nel pacchiano.
La trama è costruita sulla scia di un "incidente" realmente avvenuto nel 2000, quando un impresario di pompe funebri al servizio degli Stati Uniti rovesciò (consapevolmente) litri e litri di formaldeide nelle fognature di Seoul.
Inoltre nel film il governo diffonde la notizia di un virus generato dalla creatura capace di infettare l'uomo e per il quale non sembra ci sia una cura. Ovviamente è una farsa ed è chiaro il rimando critico al continuo allarmismo che ogni anno scopre in un qualche bacillo un pericolo di pandemia incombente.
Infine viene fortemente ridicolizzato l'operato del governo sud-coreano, totalmente inetto e incapace di affrontare adeguatamente la bestiale minaccia.
Una pellicola divertente, macabra e insana giusto quanto serve, senza scene particolarmente violente e truculente (non è solo il sangue a rendere un film angosciante).

VOTO: 7+

Starship Troopers: Marauder

Starship Troopers: Marauder
Fantascienza (...)/ Azione (...) / Horror (...)
(2008)



Mi sono iscritto recentemente a Flixster (in realtà ero già iscritto da qualche anno ma non usandolo mai non mi ricordavo minimamente quale fosse il mio profilo). Ho letto un pò di commenti su questo film (il terzo della "serie"), secondo alcuni utenti decisamente migliore del secondo. Si sbagliano, Starship Troopers: Marauder fa schifo quanto il secondo capitolo, anzi forse è addirittura più disastroso. Premetto che il primo Starship Troopers è uno dei miei film preferiti e non ho problemi ad ammettere che sia un capolavoro. E lo dice un fan di Robert Heinlein. Non esagero e ovviamente non ha senso che lo si paragoni ad un film di Fellini, ma comunque ne farò a breve una recensione e approfondirò meglio il mio punto di vista.
Torniamo al terzo sequel in questione, si presenta come un "cheap-movie", quindi l'aria di pagliacciata low-budget si avverte di già, ma un livello così basso non me lo aspettavo. Ambientazione "futuristica" (ha!) ridicola, scene di guerra e scontri (haha!) noiosissimi, splatter (hahaha!) ai minimi livelli, recitazione (hahahaha!) inesistente. Anche il mediocre Casper Van Dien è in forma peggiore del solito. Che c'è da dire? Niente probabilmente. La cosa più imbarazzante è forse il tentativo volutamente buffonesco di sfruttare l'estremismo militare per farne una caricatura, ma l'unico risultato è stato rendere ridicola l'intera pellicola. Uno dei film più inutili che abbia mai visto.

VOTO: 3

venerdì 10 settembre 2010

Francesco Guccini - Radici

Francesco Guccini - Radici
Cantautore
(1972)



Francesco Guccini, uno dei nomi di punta del cantautorato italiano, è stato capace di unire numerose generazioni quanto pochi altri (De Andrè, De Gregori, Battisti). Durante i suoi concerti si può notare una fauna molto eterogenea, a dimostrazione di un notevole carisma e di una capacità compositiva solidissima in grado di coinvolgere un po’ chiunque, senza per questo risultare banale o scadente. Nonostante questo è sempre stato anche un personaggio al centro di alcune critiche, principalmente “politiche”: da una parte chi lo accusa di essere “comunista!!” (da leggersi in tono berlusconian-dispregiativo), dall’altra chi lo accusa di essere un finto compagno troppo moderato. Insomma, a differenza dei sopracitati De Andrè o De Gregori la componente politica in Guccini è sempre stata più evidente. Sinceramente non ne capisco il motivo, reputo molto più “politicizzato” De Andrè ad esempio. Probabilmente i vecchi legami (più o meno solidi) con certi ambienti e gruppi politici hanno lasciato un marchio che ancora oggi non si dissolve. Ma non importa minimamente. Le tematiche principali affrontate da Guccini ruotano attorno alla solitudine, ai rapporti umani, a stati d’animo malinconici e via dicendo. È appunto la malinconia a caratterizzare la sua produzione, amplificata da un timbro grave e ruvido, che si discosta dalla maggior parte delle voci del panorama italiano (ma non solo), tendenzialmente più alte e melodiose. Anche questa caratteristica è stata spesso soggetta a critiche, sostanzialmente la sua voce non è abbastanza armoniosa e quindi poco adatta al canto. Ma a quanto pare lui non è d’accordo. E nemmeno io, anche perché la tecnica c’è e si sente pure dal vivo (vorrei vedere altri settantenni riuscire a reggere due ore di concerto come è ancora in grado di fare lui).
Passando all’album in questione, ritengo Radici una pietra miliare, uno degli album più belli mai prodotti nella storia della musica e, per quanto riguarda la musica italiana, siede di fianco ad un altro classico dei classici, “Tutti morimmo a stento”, del grande Faber. Radici è un tuffo nel passato, i ricordi del cantautore ci scorrono davanti agli occhi e veniamo coinvolti in prima persona in una storia che riusciamo a sentire nostra. È condivisione emotiva di frammenti di vita, un microcosmo che può essere comune a tutti senza che venga persa la necessaria soggettività. Ognuno a modo suo è in grado di perdersi nei meandri della memoria, rievocando tempi perduti. È ovviamente la malinconia a caratterizzare ogni pezzo dell’album, come una patina brumosa che appanna le immagini evocate. “Radici” ci introduce in questo mondo di ricordi, visioni quasi bucoliche di un ambiente famigliare abbandonato da tempo, il ricongiungimento con il nostro passato. “La locomotiva” è probabilmente il classico per eccellenza di Guccini, recentemente eletta come miglior canzone popolare italiana, descrive il folle gesto del macchinista Pietro Rigosi, anarchico, che nel 1893 si diresse a tutta velocità verso la stazione di Bologna. Gesto che ovviamente viene attualizzato nel clima politico dei primi anni ’70: la lotta che dilaga, le illusioni di giustizia, i sogni di rivalsa. Capolavoro indescrivibile, un pezzo al di fuori del tempo, che ancora oggi fa venire la pelle d’oca. “Piccola Città” è il ricordo di alcuni mesi d’infanzia trascorsi a Modena, si intrecciano rabbia e nostalgia, è il pezzo che maggiormente rappresenta il legame con un luogo abbandonato da anni. Altro classico, è un sublime affresco di un tempo perduto, quando ancora giovani e spensierati si sognavano “gli eroi, le armi e la bilia”. Segue “Incontro”, un amore rievocato dopo anni e anni; nonostante questo, pur essendo praticamente l’unico pezzo “d’amore” dell’album è il meno malinconico, anzi, si direbbe quasi che spunti dell’ironia nei confronti del tempo andato, della giovinezza sfiorita. “La Canzone dei Dodici Mesi”, come da titolo, è lo scorrere del tempo per eccellenza, uno stupendo calendario caratterizzato da un triste giro di chitarra; qui Guccini sfoggia la sua grande cultura, citando una serie di poeti in maniera più o meno velata. Il ritornello è la quintessenza dell’album: “O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia / diverso tutti gli anni, e tutti gli anni uguale, la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare…”. Arrivando a “La Canzone della Bambina Portoghese” i sapori si fanno agrodolci, è invocata l’immagine dell’oceano, che si staglia all’orizzonte e incornicia la “bambina portoghese”. Tutto sembra immenso e incomprensibile, il clima surreale è amplificato dalla sensazione di un caldo asfissiante che assopisce, trasportando l’ascoltatore nel mondo onirico. Si conclude con una serie di domande senza risposta sulla natura controversa e contraddittoria dell’uomo. “E poi, e poi / che quel vizio che ti ucciderà non sarà fumare o bere / ma il qualcosa che ti porti dentro / cioè vivere, vivere e poi, poi vivere e poi, poi vivere...”. L’album si conclude con l’ennesimo capolavoro, un altro classico costantemente riproposto in sede live negli anni, “Il vecchio e il bambino”. Due estremi a confronto, l’infanzia innocente e incosciente e la vecchiaia, che incarna simbolicamente la saggezza e l’esperienza, in un vortice di ricordi non sempre nitidi e a volte esagerati. Il vecchio porta il bambino su una pianura desolata e grigia e gli racconta con le lacrime agli occhi di come era una volta, verde e rigogliosa. È evidente la critica nei confronti dell’eccessiva urbanizzazione ed industrializzazione, che distrugge il territorio cementificando ed inquinando in ogni dove. È l’incontro tra due generazioni figlie di epoche lontane tra loro, ognuno porta con se ricordi differenti che tramanderà, sempre con un senso di malinconia e di perdita irrimediabile, tempi irripetibili che vivono solo nel cuore e nella mente.
Un grandissimo album che non sbiadisce mai negli anni, intenso dalla prima all'ultima nota.

"con l' anima assente, con gli occhi bagnati, seguiva il ricordo di miti passati..."

Tracklist:
1.Radici
2.La locomotiva
3.Piccola città
4.Incontro
5.Canzone dei dodici mesi
6.Canzone della bambina portoghese
7.Il vecchio e il bambino

sabato 28 agosto 2010

You are the ruler of this realm of flesh

Sei tu che governi questo reame di carne,
E questa montagna d'osso e di capelli
Viene al Maometto della tua mano
Ma questa terra esala un tanfo d'ossario,
E il vento ha il sentore dei poveri morti
Che le fosse ospitano e occultano.

Tu regoli i tonfi del cuore che mordono il fianco;
Il cuore segue il dito della morte;
Il cervello agisce conforme ai morti legali.
Perchè pensare alla morte se sei tu che governi?

Sei tu che governi la mia carne e che tradisco
Alloggiando la morte nel tuo regno,
Prestando orecchio alla voce assetata.
Condannami a un eterno faccia a faccia
Con gli occhi morti dei bambini
E i loro fiumi di sangue diventati di ghiaccio.

(DYLAN THOMAS)

giovedì 26 agosto 2010

The Descent

The Descent
Horror
(2005)



I soliti annunci eclatanti, sempre esagerati per ovvii motivi pubblicitari, a volte sono davvero esasperanti. Quasi ti fanno partire prevenuto nei confronti di un film. The Descent è stato considerato uno dei film più terrificanti di sempre e via dicendo. Niente di tutto questo, è un buon horror che ci regala diversi momenti di tensione. Un gruppo di amiche in stile donnavventura si ritrova dopo anni per esplorare delle grotte in America, tra i Monti Appalachi. Una di loro, bramosa d’avventura, conduce il gruppo verso altre grotte, ancora inesplorate, dove ovviamente la comitiva si perde dopo essere stata intrappolata da una frana. Cercano un’uscita e dopo un po’ di tempo che si muovono alla cieca si imbattono in qualcosa. Un qualcosa dalle sembianze umane ma mostruosamente deformate e soprattutto bramoso di sangue. Il gruppo si divide, c’è chi fugge da una parte e chi dall’altra, mentre poco per volta vengono scannate e sbranate. A rendere emozionante e tesa la pellicola è in primis l’ambientazione, grotte buie e tetre sconosciute anche alle protagoniste, in secondo luogo la trovata di sfruttare alcuni espedienti come l’infrarosso e la cecità delle bestie. L’infrarosso della telecamera (e di alcuni flare verdastri che creano un effetto analogo) permette allo spettatore di immedesimarsi soggettivamente e di sentirsi braccato quanto le protagoniste, mentre (l’ovvia?) cecità delle creature sotterranee implica tentativi di fuga silenziosi e lenti, spesso aggirando a distanze minime i mostri carnivori. Sono questi i momenti più tesi che quasi fanno trattenere il respiro, sperando fino all’ultimo che la poveretta di turno la scampi. Il sangue scorre abbastanza copiosamente, assistiamo anche a diversi momenti macabri e particolarmente truci, dal sapore cannibalistico.
Un buon film horror sicuramente superiore alla norma, ma altrettanto sicuramente non siamo di fronte ad un capolavoro.

VOTO: 7

Vendicami

Vendicami
Noir
(2009)



Prima di tutto una cosa: è assurdo avere nel raggio di 20 minuti 6/7 cinema e neanche uno che abbia avuto in programmazione Vendicami. Zero assoluto. Veramente scandaloso, ma forse dovrei già meravigliarmi che sia stato proiettato in qualche sala italiana. Il nuovo noir di Johnnie To si prospetta come la classica storia di vendetta tormentata, una famiglia massacrata dalla mala di Hong Kong per motivi ignoti. Il padre della donna, l’unica superstite, arriva dalla Francia per trovare i carnefici e fargliela pagare. Lui è Costello, un cuoco (Johnny Hallyday), o almeno così dice. Riesce ad assoldare tre killer professionisti e li incarica di eliminare gli assassini della moglie. I tre sono i soliti protagonisti delle ultime produzioni del regista cinese: Lam Suet, Anthony Wong e Lam Ka Tung. Degli assassini abilissimi ma con una forte vena scherzosa e bonaria, che alla fine si ritrovano sempre soli contro tutti, ribelli anche contro i propri padroni. È in loro che si incarna e traspare la vena ironica in grado di smorzare i toni troppo seriosi, costruiti sullo sfondo di truculente stragi in cui nessuno, bambini compresi, ne esce vivo. Vendicami, a differenza degli ultimi lavori di To non risulta pienamente coinvolgente, complice una durata forse leggermente eccessiva ed alcuni tempi morti. Inoltre mancano le scene travolgenti, le sparatorie armoniose e danzanti tipiche dei precedenti film, in grado di elettrizzare lo spettatore lasciandolo a bocca aperta. È necessario uno stile notevole per rendere così interessanti dei comunissimi scontri a fuoco, e Jonnhie To è sempre stato decisamente abile nel renderli unici. I nemici cadono come mosche, ma anche i nostri vengono feriti (altro elemento ridondante) e si rimettono in pista dopo essersi curati con le proprie mani. Anche il “cuoco” Costello si rivelerà un abile pistolero, forse perché anche lui lavorava nello stesso ramo dei suoi nuovi compagni. Ma durante i bei tempi andati si era beccato anche una pallottola nel cranio, che se ne sta ancora lì e rischia di fargli perdere la memoria. La corsa verso la vendetta si fa sempre più tesa e inesorabile.
L’atmosfera umida e fumosa della città accresce il pathos, siamo di fronte ad una componente classica del noir ma che si rivela sempre efficace nella sua semplicità. Anche la colonna sonora malinconica intensifica il sopraggiungere di una fine ingloriosa e inevitabile, verso la quale ci si precipita con noncuranza, pronti ad accogliere la morte a braccia aperte. Un film inferiore ai precedenti ma comunque valido, che ci conferma ancora lo stile di To: piogge di piombo, duelli in stile western, premesse di ingiustizie urlanti che devono essere placate, trionfo nel bagno di sangue.

VOTO: 7+

martedì 24 agosto 2010

Fratello, dove sei?

Fratello, dove sei?
Commedia / Avventura
(2000)



Piacevole commedia avventurosa diretta da Joel Coen, assistito dal fratello. Liberamente ispirato all’Odissea, Fratello, dove sei? non è un nuovo “Ulisse” joyciano, niente di così trascendentale e intricato. I generici rimandi all’Odissea vengono modernizzati nell’America (Mississippi per la precisione) degli anni trenta. Tre galeotti evadono e si dirigono alla ricerca di un tesoro sepolto da uno dei tre (Clooney), in una zona che a breve verrà inondata da una diga. La ricerca si staglia sullo sfondo di un America razzista e becera, in un ambiente ancora in buona parte rurale caratterizzato dalla classica figura del contadino sudista ignorantissimo e grezzo, oppure dal cittadino medio borghese, sostanzialmente identico al suddetto contadino e diverso solo nelle apparenze. Durante il viaggio i tre, accompagnati da un chitarrista nero, incidono una canzone per guadagnare qualche soldo, canzone che a loro insaputa diventerà un tormentone e che consentirà loro di redimersi a tempo debito. La colonna sonora è ovviamente country con qualche sprazzo blues e folk, fondamentale per immedesimare lo spettatore nel contesto popolare. I tre protagonisti sono due villani e un erudito, l’Omero-Clooney, che riesce ad essere abbastanza simpatico nonostante la solita spacconeria. Una commedia carina capace di strappare numerosi sorrisi, soprattutto grazie alla componente musicale e all’atmosfera rustica.

VOTO: 7