lunedì 16 maggio 2011

Machete

Machete
Azione / Splatter
(2010)



Ritorna Rodriguez con quello che da alcuni anni viene presentato come una bomba a orologeria, un cult già consacrato prima della sua stessa uscita: Machete. Un assalto all'arma bianca figlio dei b-movies e del pulp più trash in circolazione. A renderlo unico e tanto atteso è soprattutto Danny Trejo, al quale (finalmente!) spetta un ruolo da protagonista. È proprio la sua presenza fisica ad attrarre e magnetizzare: stazza imponente e scolpita (ma non troppo), tatuaggi in ogni dove, faccia butterata, baffoni e capelli lunghi, ghigno beffardo. Uno sgherro pericoloso, un vero e proprio latin thug. Il Corpo come centro di attrazione e luogo di potere, la figura del mito scolpita nella carne, un moderno Achille figlio di tempi cinici e bastardi. Il leader che guida le masse alla rivoluzione e che si erge sul nemico abbattuto. Trejo avrebbe incarnato ottimamente un ruolo così interessante, se solo avesse avuto alle spalle una regia migliore. Rodriguez si conferma (di nuovo) come un'ombra di Tarantino, inchiodato ai soliti clichè e ad uno stile fin troppo schematico e ripetitivo, incapace di re-inventarsi. La formula è quella già vista in passato, qui rimescolata con toni volutamente trash che purtroppo non fanno che sminuire quei (pochi) momenti tragici o epici. E non basta dichiarare apertamente che si tratta di un b-movie per giustificare la piattezza che, più o meno evidente, pervade l'intera pellicola. Quella che avrebbe dovuto essere un'escalation di violenze volta a coronare il trionfo della vendetta viene completamente sminuita, resta solo macelleria, divertente sì, ma niente di più. Trejo stesso, l'uomo-leggenda Machete, è altrettanto svilito, ridotto ad una macchina da guerra poco appassionata. L'esagerazione forzata si rivela anche nel cast, troppi personaggi che sembrano rubarsi la scena l'un l'altro, ridotti spesso a macchiette o caricature. Il divertimento c'è (ma non troppo, diverse sono le scene d'azione, finale compreso, decisamente scialbe) ma questo è abbastanza? Partendo dal presupposto che l'intenzione di Rodriguez fosse sfornare un storia fine a se stessa e volontariamente esagerata, fino a che punto questo può fungere da salvagente? È un eccesso che emoziona veramente poco, che sembra più mascherare una mancanza di idee interessanti, incasellate una dietro l'altra in una struttura debole e stantia. Solo io mi chiedo a cosa avremmo assistito se alla regia ci fosse stato Tarantino? E non parlo da fan sfegatato, ma da spettatore che si rende conto di come Rodriguez viva ormai sotto l'ala protettrice del fratello maggiore, andando avanti a spanne nella speranza di fare centro. Machete è un'occasione sprecata, che non si sgancia da una discreta sufficienza.

VOTO: 6

mercoledì 6 aprile 2011

Nel paese delle creature selvagge

Nel paese delle creature selvagge
Fantasy / Commedia / Drammatico
(2009)



Spike Jonze alle prese con il libro illustrato di Maurice Sendak “Nel paese dei mostri selvaggi”. Il nostro, vedovo dello sceneggiatore Charlie Kaufman, realizza una commedia fantasy dalle tinte fosche in cui enormi pupazzi bestiali e per l'appunto selvaggi rapiscono l'attenzione dello spettatore, incantato da questa strana alchimia di dolcezza infantile e istinto primordiale. Il protagonista Max è un bambino vivace, forse troppo. La sorella maggiore è abituata a stragli alla larga, dedicandogli al massimo qualche sguardo pietoso. Il padre è assente e la madre troppo presa dal lavoro per occuparsi di lui. Max, durante un eccesso di euforia, arriva addirittura a morderla, scatenandone un'ira quasi schifata. Fugge di casa e dopo uno straordinario viaggio in barca approda su un'isola abitata da mostruose creature, alle quali si presenta come un re. Viene accolto dalla tribù, che su proposta di Max inizia a costruire un regno dove tutti sarebbero vissuti assieme, tranquilli e felici. Ma le cose non andranno così. Il gruppo è un ritratto famigliare di Max, il quale a sua volta è riflesso in Carol, il più infantile e pericoloso nei sue eccessi d'ira. La madre, traslata in KK, rappresenta la componente più matura ma ancora incompleta, incapace di fronteggiare le sfuriate di Carol, dinnanzi alle quali preferisce voltare le spalle e fuggire. La sorella e il suo ragazzo (Judith e Ira) seminano discordia, rispecchiando una fase adolescenziale di insicurezza e incapacità di comprendere appieno le situazioni relazionali in cui ci si trova coinvolti. Alexander è così docile da non essere mai preso in considerazione, è il Max in cerca di comprensione, mentre Bernard è un burbero toro sempre sulle sue, cioè il Max più introverso, due figure estreme che proprio per questi comportamenti eccessivi sono isolate nel gruppo (e che se fuse darebbero il lunatico Carol). Durante la convivenza egoismi e infantilismi destabilizzeranno i rapporti fino a portare Max alla soluzione estrema dell'esilio, in un finale in cui un'importante fase di maturità sboccia in tutti. Un'ottima fotografia incornicia scenografie fiabesche; deserti digitali e boschi si rivelano tanto meravigliosi quanto insidiosi, in perfetta sintonia con le proiezioni mentali del giovane Max, che, abituato a isolarsi nelle sue avventure, arriva a viverle con tale intensità da renderle palpabili. La colonna sonora, composta da Karen O and the Kids, contribuisce notevolmente a mantenere l'atmosfera fanciullesca. Un viaggio onirico, un'avventura di formazione vissuta in bilico tra il gioco e il pericolo, l'infanzia che lotta con fauci e artigli.
Per quanto è stato detto fino ad ora sembrerebbe un film veramente entusiasmante e ricco di spunti. In realtà mi ha detto veramente poco, seppur magnificamente realizzato a livello visivo, seppur commovente e divertente nell'insieme, non è mai decollato, non mi ha mai realmente emozionato, mi ha fatto lo stesso effetto di uno stupendo giocattolo che una volta scartato annoia dopo pochi minuti. È potenzialmente interessante sotto molti aspetti, ma solo potenzialmente. Non bastano l'atmosfera fiabesca (ma non troppo) o i costumi bestialmente teneroni o le bizzarrie digitali a lasciare a bocca aperta. Resta pur sempre un film particolare e non mi sento di sconsigliarne la visione, ma non riesco nemmeno a unirmi agli entusiasti che sono riusciti a emozionarsi.

VOTO: 5,5

giovedì 6 gennaio 2011

American: the Bill Hicks story

American: the Bill Hicks story
Documentario
(2010)



Quando si parla di Stand-up Comedy è impossibile non pensare a quello che, a distanza di quasi vent'anni dalla sua morte, è considerato uno dei maggiori comici di sempre: Bill Hicks. Un grande sognatore ma anche icona dell'eccesso, dotato di una fortissima carica irriverente e corrosiva che spesso sfocia in escandescenze isteriche. Per condividere il suo idealismo c'è una sola strada ed è a senso unico: assistere per prima cosa all'esponenziale annientamento di tutte le convenzioni della nostra quotidianità, ma soprattutto di quei valori vuoti e retorici con cui i governi da sempre indottrinano i propri cittadini, in nome di guerre e autoritarismi che negano ogni logica e ogni libertà di gestire la propria vita se non entro folli schemi autodistruttivi e insensati. Solo dopo questa escalation di violenza, strabiliante e lucidissima, subentrano i desideri speranzosi di Bill, che torna a riappacificarsi con il genere umano. Un personaggio sempre in bilico tra misantropia e una sorta di francescanesimo moderno. Le sue critiche spietate e velenose si abbattono sullo stile di vita comunemente adottato, in cui monotonia, egoismo e mediocrità prendono il sopravvento, generando veri e propri mostri. Colpisce furiosamente ogni simbolo di decadenza contemporanea, tanto governi, eserciti e nazionalismi quanto religione, propaganda mediatica e marketing pubblicitario. È proprio questo bizzarro connubio tra razionalismo, con cui falcia ogni suo demone, e sognante idealismo a rendere tanto esilarante e strabiliante Hicks. I suoi spettacoli rapiscono dalla prima all'ultima battuta, ogni istante è una molla che si tende ed esplode in fragorose risate, senza tempi morti. E non sono solo le sue idee a renderlo unico, ma anche una tecnica elaborata e rielaborata negli anni che sfrutta ritmi, tempi e accenti calibrati alla perfezione, nonché una mimica e una gestualità ipnotiche e perfettamente accordate con il testo. Una bomba a orologeria.



Per conoscere meglio il personaggio e la sua formazione il documentario “American: the Bill Hicks story”, uscito il 14 Maggio 2010, è quanto di più completo si possa trovare in circolazione. Girato da Matt Harlock e Paul Thomas, racconta la vita di Bill dall'infanzia alla morte, avvenuta il 26 Febbraio 1994 a causa di un tumore al pancreas. Gran parte del documentario è stato costruito come una sorta di fumetto digitale realizzato con fotografie modellate su personaggi virtuali, in un collage perfettamente riuscito. Un'ora e quaranta scorrevolissima alla quale fa da sfondo un'ottima colonna sonora, per la maggior parte composta da pezzi dallo stesso Hicks. Folgorato da Woody Allen, fin da ragazzino sa quello che avrebbe voluto fare nella vita: il comico. Veramente impressionante e ammirevole la tenacia con cui anno dopo anno si esercita e continua ad esibirsi ovunque possibile, e non solo agli esordi ma anche dopo il successo riscosso nel 1984. Sempre on the road, arrivò a fare tour che lo impegnavano fino a 300 giorni consecutivi. Il Bill Hicks che conosciamo noi è quello post-1988, quando smise una volta per tutte con droghe e alcool. È in questo periodo che la sua tecnica migliora notevolmente e le sue performances lasciano sempre più spazio a passaggi impegnati, tentando inoltre di veicolare il suo ormai celebre messaggio di fratellanza universale. Estremamente esemplare anche la forza emotiva con cui affronta la malattia, consapevole che il sipario sarebbe calato molto presto. Senza perdere coraggio né lucidità prosegue con i suoi spettacoli, non lasciando presagire nulla nemmeno ai familiari. Si ritira pochi mesi prima della morte e vive sereno fino alla fine dei suoi giorni. Un'altra notevole caratteristica di questo documentario sta nelle intense emozioni che riesce a suscitare senza scadere nella solita retorica da quattro soldi o in pacchiani momenti strappalacrime, cosa che Bill molto probabilmente avrebbe detestato. Il titolo “American” è spiegato verso il finale, quando l'amico Kevin Booth definisce Hicks come un patriota: “Faceva quello che fanno i veri americani e i veri patrioti: metteva in discussione il governo. Ed è questo che significa essere patrioti: mettere in discussione il potere”. Non so fino a che punto si possa definire Hicks un “patriota”, considerando anche il nichilismo con cui lui stesso svuotava simili concetti, ma si può considerare un uomo che a modo suo ha creduto nell'american dream per poi spogliarlo, mettendone a nudo tutte le falsità su cui è stato costruito e che da sempre abbagliano i cittadini statunitensi. Il suo essere americano è stata la sua essenza e in qualche modo anche il suo limite; la fama è arrivata in ritardo soprattutto a causa di quell'apatico pubblico di cui spesso si lamentava, incapace di assimilare una proposta troppo innovatrice e radicale (e lo show del 1990 al West End di Londra, così come il successivo tour internazionale in paesi anglofoni confermarono questa sua opinione riguardo agli spettatori americani). È però anche difficile pensare a un Hicks inglese o australiano; non sarebbe stato lo stesso Hicks e probabilmente non sarebbe mai esistito lo stesso grande comico.
Consiglio quindi a chiunque di procurarsi questo documentario, testimonianza e ricordo di un uomo che ci è stato strappato troppo presto. Non solo un comico immenso, ma anche una persona immensa.
It's just a ride.

Film: http://www.fileserve.com/file/bhQzHUa/American.The.Bill.Hicks.Story.2009.DVDRip.XviD-EPiSODE.avi
Sottotitoli: http://www.comedysubs.org/2010/12/23/american-the-bill-hicks-story-2010/

mercoledì 5 gennaio 2011

Death in June - All pigs must die

Death in June - All pigs must die
Neofolk / Industrial / Noise
(2001)



A detta di molti l'inizio della fine per Douglas Pearce, il canto del cigno per l'enigmatico padrino del neofolk. Pubblicato nel 2001, All Pigs Must Die prosegue la collaborazione con Boyd Rice iniziata nei primi anni novanta (e terminata nel 2004 con “Alarm Agents”), che contamina diverse tracce con il suo tocco industrial cacofonico e funereo. La struttura dell'album, almeno per la prima parte, è molto simile a quella del periodo d'oro tra “Brown Book” e “Rose Clouds of Holocaust”, costruita sul binomio chitarra acustica/voce con qualche contorno a incorniciare il tutto. Andreas Ritter è uno degli ospiti dell'album, questa volta alle prese con l'accordéon, uno strumento francese molto simile alla fisarmonica che ci accompagna per alcune canzoni. Mischiandosi all'acustica, che a differenza del passato si presenta con un tocco molto più deciso, ritmato e riverberante, crea un tessuto sonoro molto marcato, sul quale la voce di Pearce si adagia alla perfezione. Rispetto ai lavori dei primi anni novanta, probabilmente a causa dell'influenza di Rice, la Morte in Giugno ha guadagnato una maggiore aggressività che si distacca molto dalle sonorità introspettive e delicate di vent'anni or sono. Fino alla sesta traccia (“Flies have their house”) ci troviamo quindi di fronte a un classico neofolk-sound, segnato da un incipit quasi scanzonato (“All pigs must die”) ma comunque efficace, per poi passare a momenti più paranoici (“Tick Tock” e “We said destroy II”) ed altri decisamente malinconici (“Disappear in every way” e “The enemy within”). È proprio questa prima parte la migliore dell'album, che vanta alcuni pezzi molto validi (la title-track e “The enemy within”) degni del miglior Pearce. Quando il nostro, assieme al fidato Ritter (e senza dimenticare il fedele trombettista Campbell Finley), punta su melodie più malinconiche dalle tinte grigiastre e decadenti, riesce a dare il meglio di sé. Da “With bad blood” è Rice che, dopo aver fatto capolino in “Tick Tock” e “Flies have their house”, prende in mano le redini fino alla conclusione dell'album. La seconda parte stride con quella precedente ed esplode in soluzioni sonore cacofoniche e deliranti, proseguendo con un distorto industrial/noise dai toni psicotici e sanguinari. Tra urla filtrate, grugniti di maiali dilaniati, sussurri e riverberi metallici l'album scorre fino alla fine lasciando un po' il tempo che trova. A parte la discreta “With bad blood” l'estremismo sonoro di Rice tende a stancare presto, riuscendo comunque a mantenere una costante atmosfera claustrofobica e angosciante. Da una parte abbiamo quindi il vecchio Pearce che ancora ci diletta con soluzioni di vecchio stampo, seppure sfruttando una nuova ironia e una proposta sonora rivisitata, dall'altra Boyd Rice che, sempre fedele al NON-sound, fa sanguinare le orecchie dell'ascoltatore col suo terrorismo sonoro intransigente. In definitiva un discreto album a due facce, comunque consigliato piuttosto che sorbirsi la solita band-clone monocorde.

VOTO: 7

Tracklist:
1. All pigs must die
2. Tick Tock
3. Disappear in every way
4. The enemy within
5. We said destroy II
6. Flies have their house
7. With bad blood
8. No pig day (some night we're going to party like it's 1969)
9. We said destroy III
10. Lords of the sties
11. Ride out!

martedì 4 gennaio 2011

Rome - Berlin

Rome - Berlin
Apocalyptic Folk / Martial / Retrò
(2006)



Quando si dice un piccolo gioiello mai il paragone potrebbe essere azzeccato come in questo caso. Berlin è stato il debutto dei Rome, ormai diventati uno dei gruppi più importanti della scena neofolk, sommersa da quasi cinque anni a questa parte da una release dietro l'altra. Si parla di neofolk ma il termine calza stretto, le sonorità proposte spaziano dall'apocalyptic al martial industrial, il tutto contaminato da una componente dark e retrò che è andata un po' scemando negli ultimi album. Questo mini e il primo full-lenght “Nera” sono inoltre caratterizzati da una forte venatura classicheggiante, che li ha resi a mio parere decisamente più interessanti delle successive produzioni.
Berlin è una tormentata storia d'amore vissuta in una città in rovina, è il desiderio capace di scuotere gli amanti dalla desolazione che li circonda. Berlin è il simbolo di un'epoca decadente, è il racconto di cameratismi traditi. Berlin è iprite che soffoca interi popoli, è zyklon B che si propaga per tutta l'Europa. Berlin è una stupenda stele marmorea che abbaglia ogni atrocità. Questo è quello che vedo nei soli venti minuti dell'album, un affresco malinconico e a tratti brutale, ma raffinato, di un tetro periodo storico contrastato dalla vitalità e dalle passioni di uomini qualunque.
“Like Lovers” ci accompagna indietro nel tempo con ritmi marziali e il sentore di un bombardamento incombente. La guerra totale si avvicina, presagi di stermini e violenze sono alle porte. Si sussurra, non si parla più, mentre loro possono urlare e marciare impettiti, impartendo ordini. Un suono flebile e sempre più smorzato introduce “The Orchards” e mai il dolore e la disperazione sono stati così sublimi. Mentre rimbombano lontane le campionature distorte di grida e sussurri, l'incedere marziale e lo stupendo giro di chitarra incorniciano la profonda voce di Jerome. Crepuscoli estivi, frutteti, scritte nere su muri bagnati, il torpore del sangue; visioni viscerali e drammatiche scatenate una dietro l'altra accrescono il sentore di tragedia, che ci pervade completamente. “Un Autre Vision” ci riporta alle sonorità marziali accennate all'inizio, che esplodono nei rabbiosi ordini militari ripetuti fino alla fine della traccia, spazzando via il limpido tessuto sonoro costruito sullo sfondo. “Clocks” e “Wake” estremizzano la componente cacofonica, oscurando del tutto ogni bagliore di speranza; la tragedia si consuma, senza gloria né onore. Chiude “Herbstzeitlose”, le lacrime si cristallizzano sulle note di un pianoforte, che ridondante e lento riepiloga l'orrore appena attraversato e che sempre si ripresenterà. Disperazione, tradimento e guerra mai si potranno abbandonare, cinici e fedeli compagni di viaggio che accompagneranno l'uomo nelle ceneri dei secoli.
Un piccolo capolavoro in bianco e nero, folgorante e ammaliante.

In the blue dawns of summer black writing on wet walls
Let us float in a stupor of blood...


VOTO: 8+

Tracklist:
1. Like Lovers
2. The Orchards
3. Un Autre Vision
4. Clocks
5. Wake
6. Hebstzeitlose

Carbon Based Lifeforms - Hydrophonic Garden

Carbon Based Lifeforms - Hydrophonic Garden
Ambient / Chill-out / Acid
(2003)



I Carbon Based Lifeforms, duo svedese nato nel 1996 e composto da Johannes Hedberg e Daniel Sagerstad (né Ringström), rappresentano la punta di diamante della scena ambient elettronica, assieme al compositore connazionale Magnus Birgersson e il suo progetto Solar Fields. Ci troviamo di fronte al sodalizio moderno tra Brian Eno e Future Sound of London, sommersi da suoni sintetizzati che lentamente ci cullano nell'etere. Non da meno è l'influenza degli imprescindibili Autechre, ma è abbastanza scontato sottolineare la straordinaria importanza di Incunabula che dal 1993 è un punto di riferimento per tutti gli amanti dell'elettronica, soprattutto quando si ha a che fare con certe sonorità estremamente atmosferiche e oniriche. Non è facile registrare un album ambient senza risultare noiosi o troppo ripetitivi, c'è sempre il rischio di tirarla per le lunghe elaborando melodie abbozzate e banali, lasciando all'ascoltatore il dubbio di avere avuto a che fare con dilettanti della campionatura che si sono divertiti a giocherellare con sintetizzatori e sequencer. Hydrophonic Garden si mantiene invece su buoni livelli pur sforando un po' troppo nei tempi (poco più di un'ora e un quarto), fluttuante attraverso onde elettromagnetiche che ci abbandonano in balia di irresistibili correnti. A parte alcuni momenti sottotono (“Tensor” e “Artificial Island”) vanta dei picchi veramente degni di nota, come il pezzo d'apertura “Central Plains” e “MOS 6581”, la delicata “Exosphere” e la finale “Refraction 1.33”. Una trasmigrazione continua in Shangri-La naturali e artificiali, si spazia dall'immaginario di metropoli futuristiche a campi lunari siderali, attraversando sterminate distese artiche sulle quali si riflettono le danze di supernove agonizzanti. Il connubio tra terra e galassia implode in rilassanti visioni dalle tinte glaciali, proiettandoci verso l'immensità astrale. I suoni si impastano in sinergie a tratti lisergiche che scatenano percezioni ovattate, mentre la forza di gravità cede. Un trip visionario e rilassante condito da passaggi anfetaminici e beat ipnotici, una discesa negli sconfinati abissi della nostra mente.
Introspettivo e sidereo.

VOTO: 7+

Tracklist:
1 Central Plains
2 Tensor
3 MOS 6581 (Album Version)
4 Silent Running
5 Neurotransmitter
6 Hydroponic Garden
7 Exosphere
8 Comsat
9 Epicentre (First Movement)
10 Artificial Island
11 Refraction