mercoledì 18 febbraio 2009

Little Miss Sunshine

Little Miss Sunshine
Commedia
(2006)



Divertente commedia ben calibrata, non troppo retorica nè mielosa, in alcuni passaggi amara. Una famiglia scapestrata si mette in viaggio per la California, dove la figlioletta Olive dovrà sostenere il concorso di "Piccola Miss California". Il padre è il classico americano di belle speranze, si è messo in proprio scrivendo un libro, incentrato su come avere successo nella vita, ma il suo editore lo scarica. Ecco che inizia da questo momento l'evoluzione del personaggio, fervido sostenitore della dictomia (su cui si basa la società) perdente-vincente, sostenuta a spada tratta (tanto da risultare odiosa) per buona parte del film, fino, appunto, al momento in cui si ritrova nella condizione da lui tanto disprezzata di "perdente". La madre adora i suoi due figli ma è perennemente in lite col marito, si tratta infatti un personaggio nevrotico, interpretato da Toni Collette (madre anche ne "Il sesto senso" e "About a Boy", abbastanza schizzata pure in questi film). Il figlio pare problematico, ha fatto promessa di non proferire parola fino a quando non avrà terminato i futuri studi di aeronautica, si allena ogni giorno ed è un fervido lettore di Nietzsche. Lo zio è un ex docente universitario salvato da un suicidio, tentato per amore, con lo sguardo perennemente afflitto e una disperazione di fondo sfociata in una sorta di atarassia. Il nonno è un folle eroinomane e segaiolo, che ci regala perle per una buona parte del film, mentre la piccina, Olvie, risulta fortunatamente simpatica (a differenza di molte altre interpretazioni dove la bambina di turno sarebbe da prendere a noci in faccia). Una famiglia abbastanza anomala quindi. Durante il viaggio in California ovviamente ne capitano di tutte, i messaggi di fondo sono un po' i soliti (la forza del nucleo famigliare, il rifiuto di una società costruita sull'apparire) ma si tratta comunque di una pellicola ben costruita, che scorre veloce e capace di strappare molte risate.

VOTO: 7,5

In the panchine - In the panchine street album

In the panchine - In the panchine street album
Rap
(2005)



Aò, da Roma con ignoranza. Cole, Benassa, Chicoria e Gemello, della crew Truceklan, incidono questo street album coniando lo slang romano-inglese. Sono ovviamente eccessivi, parlano della vita quotidiana nella periferia romana anche se spesso non si capisce bene cosa cazzo stiano dicendo, ma non è importante, il bello di questo album sono le perle (nonsense) sparate a raffica, unite a delle buone basi (in alcuni passaggi davvero ottime). È onnipresente la questione "ma questi sono seri?", valida per ogni album inciso dai componenti del Truceklan (Noyz, Carter, Gel, Montana, Gemello ecc.). La mia risposta è NO, o comunque NON SEMPRE, ma non posso saperlo, di sicuro vivere nelle periferie romane non è un passeggiata (ma altrettanto sicuramente non si puo' minimamente paragonare la situazione a quella dei ghetti americani o delle banlieues francesi). Fatto sta che è un album molto coinvolgente e cazzone, ricco di momenti esilaranti, tra il comico e il brutale. Tra i quattro truceboys quello che preferisco è Cole, che ha sempre un tiro della madonna (soprattutto in "Far Away From Problemi", dove parte in quinta), seguito da Benassa. Gemello non mi fa impazzire, Chicoria è allucinante, ha una voce da dodicenne, parla solo romano e di quanto sia dura fà er pusher aò, è proprio quel problema sulla serietà (e lui mi pare sempre l'unico serio) che me lo fa scadere, diciamo che lo considero proprio un caso umano. Comunque dopo la sparata in Tajerino (da "La calda notte") non posso più dire nulla, ha fatto un balzo enorme con una manciata di parole ("tutto quer sudore che ti bagna, come la fregna de 'na cagna"). Non dimentichiamo le collaborazioni, tra le quali spicca (ovviamente) Noyz Narcos, prima in "Deadly Combination" ("open my bara dorata, sniff my droga tagliata, die lungo la strada with the narice scoppiata") e poi in quello che diverrà il suo pezzo più conosciuto, "Verano Zombie" ("nation di zulù, non ne posso più, bevo rum, fuck mc.menù, chiodi in bambola e voodoo"). Gli higlights sono, oltre ai due pezzi con Noyz, "Never Do the Spia" (bella base cantata da Evelina), "Far Away from Problemi" (miglior base del lotto assieme a quella di Verano Zombie, composta da Dj Lollibar) e "Loosin' Pazienza".
Se vi piace il rap è consigliato per i momenti più cazzoni, basta non prenderli sul serio nè esaltarli come idoli indiscussi del brutal-cinismo di nuova generazione (tendenza che sta prendendo piede negli ultimi anni).

VOTO: 7

Tracklist:
1. Deadly Combination
2. 13 pm
3. Gemeloooo
4. Mr. G
5. Verano Zombie
6. Stolen Car
7. Fuori Misura
8. In The Panchina
9. Never Do The Spia
10. Far Away From Problemi
11. I Push My Rap, Dude
12. Chicoria
13. Loosin' Pazienza
14. (Bonus Track)

martedì 17 febbraio 2009

Forseti - Windzeit

Forseti - Windzeit
Neofolk
(2002)



Il Neofolk è un genere che riesce davvero a trasmettermi molte sensazioni. Malinconia, senso di abbandono, isolamento in un mondo che non mi appartiene, spesso il tutto inserito in una contemplazione primordiale della natura. È questo il caso di Forseti, one-man-band tedesca progetto di Andreas Ritter, compositore e polistrumentista (lo troviamo alla voce, alla chitarra, alle percussioni ed alla fisarmonica) appoggiato da una manciata di musicisti. Questo “Windzeit” è un buon album caratterizzato soprattutto dal particolare timbro di Andreas, niente di sensazionale né particolarmente talentuoso, ma efficace ed adatto all’immaginario generato. L’armonia dell’immersione in un ambiente arcadico, la quiete infusa da fisarmonica e flauto, gli intrecci di acustica che segnano il battere del vento sulla nuda roccia; tutto è finalizzato a ricreare quell’intesa bucolica andata perduta nei secoli. Sono composizioni relativamente semplici, quasi ripetitive, ma ipnotiche nell’incedere, una manciata di inni alla vita ancestrale, un desiderio di ricongiungimento avverso al mondo moderno. Pare di essere dispersi in immense vallate durante una sera autunnale, dove le fronde degli alberi sono percosse dal vento e l’orizzonte è grigio e lontano. In alcuni passaggi il tessuto sonoro è raffinato dalla presenza di un violino e di una voce femminile, ma nulla pare mai essere in primo piano se non forse la voce di Ritter. Nell’ultima traccia il padrino Douglas Pearce offre la sua voce, concludendo questo breve viaggio in terre vergini ed incontaminate. Non aspettatevi alcuna influenza apocalyptic o industrialeggiante, siamo di fronte ad un’opera semplice e basilare sostenuta dal binomio acustica-voce condito dall’inserzione di alcuni strumenti (fisarmonica – violino – flauto) volti a ricreare un’ atmosfera triste e nostalgica. Leggero e delicato come le gocce di pioggia che si infrangono sui vetri.

VOTO: 7

Tracklist:
1) Verzweiflung
2) Welkes Blatt
3) Sturmgeweiht
4) Letzter Traum
5) Wind
6) Windzeit
7) Herbstabend
8) Einsamkeit
9) Abendrot
10) Black Jena

Rome - Nera

Rome - Nera
Neofolk / Industrial / Sperimentale
(2006)



I Rome sono un duo del Lussemburgo che ha sfornato tre album ed un EP (in soli tre anni!) di uno spessore allarmante. Ultra malinconici, grazie soprattutto ad un timbro vocale profondo e caldissimo, che scioglie l'anima. A tratti bizzarri: usano sia la lingua tedesca che quella inglese e francese, inseriscono numerosi spezzoni tratti da film, canti e marce della seconda guerra mondiale e passaggi lirici, il tutto sorretto da acustica, percussioni e a volte pianoforte. Indescrivibile il vortice di emozioni che suscitano. "A Le Faveur de la Nuit" è micidiale nel suo incedere desolante, "Das Unbedingte" ipnotica, "Beasts of Pray" spazia tra richiami battaglieri e arditi slanci eroici, "Les Hirondelles" conclude maestosa e decadente. Non saprei davvero a chi paragonarli, è difficile trovare qualcuno da accostare alle loro (miste) sonorità, direi che i padrini Death in June e Current 93 fanno sempre da eco ma la loro presenza è vaga, si respira appena. La componente classica la fa da padrona, sostenuta spesso dall'acustica. Il punto di forza sta nella voce, veramente unica, tra il recitativo, il sussurrato ed il normale cantato, un timbro molto personale ed emozionante. Album classicheggiante, raffinato, ben scolpito e levigato. Come un David che si erge sulle rovine. Marmoreo, marziale, imponente nella sua delicatezza cristallina.

VOTO: 8

Tracklist:
1. Der Zeitsturm
2. A Burden of Flowers
3. Reversion
4. A la Faveur de la Nuit
5. Das Unbedingte
6. Rape Blossoms
7. Beasts of Prey
8. The Blade Unmasked
9. Hope Dies Painless
10. Nera
11. Birds of Prey
12. Les Hirondelles

Death In June - But, what ends when the symbols shatter?

Death In June - But, what ends when the symbols shatter?
Neofolk
(1992)



Stupendo pilastro del neofolk, assieme a "Rose Clouds of Holocaust" (altro capolavoro) il più accessibile della discografia DIJ ma non per questo da sottovalutare. Douglas Pearce, padrino del filone neofolk assieme a David Tibet (leader dei Current 93), un personaggio un po' controverso e spesso al centro di numerose polemiche registra questo album in un periodo di "crisi" (spirituale? mistico-religiosa? "politica"?). Il risultato sono dodici pezzi introspettivi, malinconici, onirici in grado di evocare quel malessere che permea l'animo di un uomo affranto dinnanzi al costante decadere dell'Occidente, del Vecchio Continente, quest'Europa svenduta alle lobby, alle multinazionali, ai banchieri. La morte di gloriose civiltà vista ormai con un certo distacco e con la freddezza di chi sa di avere perso la partita. Questa sensazione di sconfitta accresce l'atmosfera decadente che caratterizza l'album, che scorre veloce come la brezza autunnale. Tra tutti i pezzi, ognuno di elevato spessore, spiccano la sensazionale "Daedalus Rising", cantata da David Tibet, un fiume cristallino di lacrime che si infrange al crepuscolo, "Little Black Angel", un classico della band, dall'incedere quasi marziale che si conclude con un triste e disincantato solo di tromba. "Hollows of Devotion" scuote le più intime corde dell'io, scava nell'anima, a dimostrazione che uno spirito in grado di smuoverci forse ancora esiste. Chiude l'album la title-track "But, what ends when the symbols shatter?", un grande interrogativo sulla vita, il senso che nasconde, uno straziante inno dal gusto nichilista. Cosa aspettarsi da questo album a livello prettamente musicale? Un neofolk "puro" e semplice (pur nella sua potenza evocativa), una stupenda voce profonda, alcuni strumenti quali synth e trombe che fanno da cornice e una colonna vertebrale composta dall'acustica di Pearce. Album seminale di una (one man)band altrettanto fondamentale.

VOTO: 9,5

Tracklist:
1. "Death Is the Martyr of Beauty" – 3:50
2. "He's Disabled" – 4:08
3. "The Mourner's Bench" – 2:31
4. "Because of Him" – 3:46
5. "Daedalus Rising" – 4:52
6. "Little Black Angel" – 4:18
7. "The Golden Wedding of Sorrow" – 3:36
8. "The Giddy Edge of Light" – 5:07
9. "Ku Ku Ku" – 1:52
10. "This Is Not Paradise" – 5:27
11. "Hollows of Devotion" – 3:29
12. "But, What Ends When the Symbols Shatter?" – 3:15

Agalloch - The Mantle

Agalloch - The Mantle
Black / Folk / Dark Ambient
(2002)



Secondo full-lenght di questa band straordinaria, mai banale, mai scontata, sempre fresca ascolto dopo ascolto. La particolarità di questo album sta nell'evocare immagini e sensazioni nebbiose e decadenti, grazie ad uno stupendo song-writing e testi decisamente poetici. "A celebration for the death of man..." apre le danze, una strumentale di pochi minuti sorretta da un giro di chitarra acustica semplice ma molto efficace, giro che verrà ripreso in altri pezzi dell'album e che ne è in qualche modo la colonna vertebrale. "In the shadow of our pale companion" è un classico della band, della durata di quasi un quarto d'ora, incalzante, in crescendo, sostenuto da arpeggi onirici e da un'elettrica atmosferica e malinconica, Haughm alterna il cantato pulito al suo caratteristico screaming "soffuso", quasi delicato. "Odal" è una strumentale stupenda, ogni nota trasuda emozioni che raggiungono l'apice nel finale, quando subentra il pianoforte. Segue "I am the wooden doors", introdotta da un ritmo più veloce e serrato, è forse il pezzo più "tirato" dell'album, il più blackeggiante, "The Lodge" è un'altra stupenda strumentale, in cui ricorre neanche troppo vagamente il giro di acustica del primo pezzo, anche se leggermente differente. Quando finirete di ascoltare questo album il suddetto giro vi resterà in testa da subito, ne incarna l'essenza. "You were but a ghost in my arms" è un altro classico, un capolavoro, giri di chitarra da brividi, arpeggi fantastici e cantato ultra evocativo, ogni volta che la ascolto mi immagino montagne innevate immerse nella nebbia, la tranquillità cristallina della natura invernale, il suo grigiore, la sua maestosità. La settima traccia, "The Hawthrone Passage", è l'ultima strumentale, di ben 11 minuti, il sottotitolo dice "song for a grey city" ed è inutile stia qui a descrivervi quanto la musica calzi alla perfezione. Se c'è un gruppo in grado di non annoiare mai con pezzi strumentali (nell'ambiente "metal" -etichetta da prendere con le pinze-) questi sono gli Agalloch, che possono permettersi di inserirne 4 in un album di 9 tracce riuscendo a non stancare minimamente l'ascoltatore. "...And the great cold death of the earth" è la canzone che mi fece innamorare di questo gruppo, qualche anno fa; il giro-cardine è ripreso ed è costante nei suoi 7 minuti di durata, una delle loro song migliori di sempre, malinconica e desolata. Chiude l'album "The desolation song", pezzo acustico da brividi, acustica e contrabbasso creano un intreccio perfetto, Haughm sussurra un testo tristissimo, l'assolo di mandolino è azzecatissimo. Sembra quasi (dico quasi) una base folk tipica delle zone balcaniche. Capolavoro, il voto è oggettivo, personalmente ogni loro produzione è da 10.
"Lost in the desolation of love, the passions we reap and sow, lost in the desolation of life, this path that we walk..."

VOTO: 8

Tracklist:
1. A Celebration For The Death Of Man...
2. In The Shadow Of Our Pale Companion
3. Odal
4. I Am The Wooden Doors
5. The Lodge
6. You Were But A Ghost In My Arms
7. The Hawthorne Passage
8. ...And The Great Cold Death Of The Earth
9. A Desolation Song

Canldemass - Nightfall

Candlemass - Nightfall
Doom
(1987)



L'album di debutto del 1986, Epicus Doomicus Metallicus, divenne immediatemente una colonna portante del Doom, il gruppo svedese venne eletto degno successore dei Black Sabbath ed entrò nella storia della musica pesante. L'anno successivo vedrà la luce quest'altro capolavoro, Nightfall, Johan Längqvist verrà sostituito da Messiah Marcolin, talentuoso vocalist dal potente e personalissimo timbro vocale in grado di donare ai Candlemass quell'alone di solennità che caratterizza la loro intera produzione, perfettamente in linea con le tematiche di stampo mistico-visionario tipiche del gruppo. Gothic Stone è un intro strumentale che ci scaraventa in un mondo claustrofobico, sulfureo, onirico, se dovessimo collegare immagini alla musica queste coinciderebbero con il quadro in copertina, opera di Thomas Cole. Terminata l'intro attacca immediatamente The Well Of Souls che mette subito in chiaro la capacità espressiva di Marcolin, chitarre e basso si intrecciano procedendo lente e solenni, aprendo una voragine che ci trascina nelle viscere della terra, in questo "Pozzo delle anime". Segue la strumentale Codex Gigas che ci introduce ad un altro classico della band, At The Gallows End, malinconico addio di un condannato a morte sostenuto da uno stupendo giro di chitarra. La quinta traccia è a mio parere il capolavoro assoluto dei Candlemass, Samarithan, un inno alla disperazione diretto come al solito dal superbo lavoro di Johansson, ogni nota trasuda triste maestosità che si conclude nell'ascesa paradisiaca. Marche Funebre è una rivisitazione della celebre Marcia Funebre di Chopin, che incarna alla perfezione lo spirito del Doom, Dark Are The Veils Of Death è un viaggio nel regno degli Inferi, seguita da Mourners Lament, segnata da un grandissimo solo di Johansson. Bewitched è un altro classico, caratterizzato da un incedere ipnotico che rimanda al racconto del pifferaio di Hamlin. Black Candles conclude l'opera, una strumentale malinconica decisamente efficace.In definitiva un album fondamentale per chiunque ami il Doom, ma credo che chiunque debba concedere almeno una possibilita a questa pietra miliare.

VOTO: 9

Tracklist:
1. "Gothic Stone" - 4:31
2. "The Well of Souls" - 3:46
3. "Codex Gigas" - 2:20
4. "At the Gallows End" - 5:48
5. "Samarithan" - 5:30
6. "Marche Funebre" - 2:22
7. "Dark Are the Veils of Death" - 7:08
8. "Mourners Lament" - 6:10
9. "Bewitched" - 6:38
10. "Black Candles" - 2:18

sabato 14 febbraio 2009

Death In June - Nada!

Death In June – Nada!
Darkwave / Neofolk
(1985)



L’album più sottovalutato dei DI6. Dopo la dipartita di Wakeford dal progetto della Morte in Giugno Pearce, assieme al mai troppo rimpianto Patrick Leagas, intraprende quella svolta folk (qui ancora molto embrionale) che due anni più tardi darà vita al celebre “Brown Book”, a detta di molti il capolavoro del gruppo. Ottimo album, nulla in contrario, ma ritengo che sia proprio la causa principale della scarsa considerazione di cui gode questo “Nada!”. Parlavo di una svolta folkloristica ma bisogna specificare che si tratta ancora di vagiti, accenni a quello che negli anni diverrà un marchio della musica di Douglas Pearce. Fondamentalmente si tratta di un album darkwave con forti influenze marziali. “The torture garden” ci accompagna in un mondo grigio, desolato, un’ introduzione corale che recita “The will to power / The will to war / For the world is hell / The bleak wind blows”. Le porte dell’ inferno sono spalancate ma non è un inferno dantesco, l’immaginario generato appare come una pianura gelida e spoglia battuta dal vento, in un epoca non ben definita (a tratti post-medioevale, si aggira uno spirito vagamente inquisitore). Spesso pare di essere sospesi nel nulla, come se un bardo malinconico cantasse le disgrazie e le condanne dell’umanità con totale distacco, solitario ed impassibile. “Last Farewell” è una strumentale agghiacciante, una semplice melodia di synth distorta sufficiente ad intensificare il senso di disagio generato dalla prima traccia. Scorrendo fino a “The Honour of Silence” pare di tornare al principio, una sorta di dichiarazione, un avvertimento, molto simile alla prima traccia: si tratta infatti dell’intro dell’LP originale, le prime quattro tracce che si trovano ora su cd sono state aggiunte solo nel ’91. Dico “si trovano ora su cd” per semplificare, in realtà reperire un qualsiasi album dei DI6 è un’impresa impossibile, a meno che non si abbia intenzione di pagare col sangue quei pochi fortunati che posseggono qualche copia e la rivendono on-line(*). Tornando a Nada!, è con “The Calling (MK2)” che i ritmi si fanno più incalzanti e marziali, il tutto in una salsa vagamente paranoica e profetica, mentre “Leper Lord” è un breve pezzo sorretto dall’acustica di Pearce (neofolk-evolution part one). “Rain of Despair” è caratterizzata da un base elettronica che rimanda vagamente alla dance, alla quale si sovrappone un canto sussurrato e quasi strozzato, a tratti stonato, come una presenza impalpabile, negativa e nichilista (“These Things You See / All Mean Nothing”). Con “Foretold” si ritorna alla plumbea atmosfera di “Last Farewell”, una melodia cupa che fa da sfondo a struggenti dichiarazioni pessimiste, “Behind the Rose (Fields of Rape)” è un ulteriore dimostrazione dell’evoluzione folk intrapresa dai DI6, pezzo che potrebbe essere tranquillamente inserito in “Brown Book” (neofolk-evolution part two). Con “She said destroy” siamo di fronte ad un classico della band, drumming deciso ed aggressivo, cantato ispirato e profetico, acustica in rilievo (neofolk-evolution part three). Apocalittiche visioni di una Lei (“She”) che semina morte e rovina, immagini di corpi accatastati, soffocati dal gas (“Into that darkness / Into that darkness / The bodies collapsed / Swollen with gas”); riferimenti al periodo nazista? Vi è sicuramente un certo interesse da parte di Pearce nel descrivere le atrocità della seconda guerra mondiale, che ben si inseriscono nel mosaico di disperazione di Nada!. Ovviamente non si tratta di apologia, come molti ignoranti detrattori continuano a sostenere, in una sorta di caccia alle streghe sostenuta superficialmente, desiderosi di costruirsi un’immagine da militante (della domenica). È chiaro che l’intento è quello di ricreare un’atmosfera malsana e decadente, volta a definire un’epoca tetra e brutale. “Carousel” è l’unico momento in cui si respira un’aria più ottimista, anche se in realtà è recitato un altro malinconico lamento sulla miseria e l’impotenza umana ("Born To Crawl / We Climbed in Vain / Destined To Fall / Into Graves"). Degna di nota la base, molto trascinante. “C’est un Rêve” nasce con suoni distorti e sfocia in un canto lirico a cui vengono sovrapposti beat bellicosi ed una voce marziale; ci troviamo davanti ad una vera e propria marcia militare e anche qui siamo costretti a lasciare alle nostre spalle ogni speranza ("Liberté / C'est un rêve – Libertà / è un sogno"). Chiude l’album uno dei pezzi migliori del repertorio DI6, “Crush my soul / Crush my love” (nella seconda edizione “love” si sostituì a “soul”). È il riassunto di un intero viaggio nei più oscuri e solitari meandri della mente umana, un’esplosione nichilista, un inno alla disperazione che racchiude l’essenza di Nada!.
Si tratta quindi di un album da avere ed ascoltare attentamente, senza lasciarsi ingannare dalla composizione a tratti acerba, minimalista e in certi momenti ripetitiva. Il primo piccolo capolavoro di una band seminale, culla e pilastro del neofolk.

“A Broken Dream
Hangs Over Life
I Feel No Pain
I Feel Nothing
Like Empty Shells
Like Coffins Dead
Just Emptiness
Just Emptiness
Judas”

VOTO: 8+

Tracklist (1991 CD version):
1. The Torture Garden
2. Last Farewell
3. The Calling
4. Doubt to Nothing
5. The Honour of Silence
6. The Calling (MK2)
7. Leper Lord
8. Rain of Despair
9. Foretold
10. Behind the Rose (Fields of Rape)
11. She Said Destroy
12. Carousel
13. C'est un Rêve
14. Crush My Love


(*) Nell'ultimo periodo sono state comunque prodotte numerose ristampe di gran parte della discografia dei Death In June. Quando avevo scritto la recensione ancora non si trovava praticamente nulla (tranne, come già scritto, album rivenduti da privati).

Titus

Titus
Drammatico
(1999)



Maestosa trasposizione cinematografica del Tito Andronico di Shakespeare. Bizzarra, inusuale, il moderno si mischia all'antico, immersi in una Roma Capvt Mvndi dove il generale Tito è costretto a scegliere tra l'amore per la sua famiglia e la fedeltà al neo-eletto imperatore Saturnino. Tradito e abbandonato da tutto ciò in cui credeva sembra ormai fuori di senno, ma la realtà è ben diversa. Superba pellicola, recitata in versi, non fatevi ingannare dalle due ore e mezza di durata, la scorrevolezza è impressionante. Ovvio, non è una commedia per famiglie, ma ogni secondo dedicato alla visione è ben speso. Stupenda e quasi angosciante la ricostruzione dell'antica Roma, che mischia l'architettura classica a quella moderna. E poi lui, il cannibale, Hopkins. Incredibile come sempre, un'interpretazione da brividi, ulteriore dimostrazione di uno degli attori più talentuosi di sempre. E che finale, che finale. Quei 30 secondi di follia valgono tutto il film. Magnifico.

VOTO: 9

Gozu

Gozu
Horror / Fantasy / Thriller
(2003)



"Yakuza Horror Theatre". Ed è proprio un teatro, allucinato ed assurdo, in puro stile Takashi. Probabilmente il film più bizzarro del regista giapponese, tanto che alla fine ti chiedi "ma cosa cazzo avrà voluto dire?". Magari è un grande bluff, un'assurdità dietro l'altra, inscenate apposta per confondere lo spettatore. Si passa da scene raccapriccianti ad altre al limite del ridicolo, il tutto in una salsa grottesca e tragicomica. Non ha un senso vero è proprio, anche se una trama c'è ed è pure seguita, ma le situazioni vissute dal protagonista arrivano a depistare a tal punto da spiazzare completamente. L'unica riflessione che mi è passata per la testa è che tratti dell'omosessualità, magari l'omosessualità latente del protagonista che si rivela solo alla fine dopo una serie di travagli, come una via Crucis che conduce ad accettare la propria natura. Questo almeno è quello che ho pensato in seguito alla (ripugnante) scena finale. Posso benissimo aver centrato il colpo come posso non avere capito nulla. Ribadisco, potrebbe davvero non avere alcun senso. Comunque sia si tratta di un film (s)coinvolgente, ben girato e in grado di trasmettere un senso di angoscia che ci accompagna dall'inizio alla fine. Un delirio.

VOTO: 8

Il Grande Silenzio

Il Grande Silenzio
Spaghetti Western
(1968)



Capolavoro di Corbucci, uno spaghetti western spietato e tragico. Silenzio, solitario giustiziere che difende i banditi dai cacciatori di taglie, viene assoldato come vendicatore. Ambientato durante un gelido inverno, sulle note del maestro Morricone, "Il grande silenzio" scorre veloce, regalandoci un Trintignant superbo nella sua impassibilità, che lascia trasparire la rassegnazione e la malinconia di chi ha perduto tutto e corre implacabile verso la sua fine. Ottima anche l'interpretazione di Kinski, una iena. Trionfa l'ingiustizia, i carnefici ne escono vincitori. Primo western in cui l'eroe viene sconfitto, degno di stare tra i grandi del genere.

VOTO: 7,5

venerdì 13 febbraio 2009

Ice Ages - This killing emptiness

Ice Ages - This killing emptiness
Darkwave / Electro-dark / Industrial
(2000)



Dietro a questo progetto si cela la mente di Protector aka Richard Lederer, già all'attivo con Silenius nei mai troppo lodati Summoning. Cosa ci propone questo personaggio purtroppo semi-sconosciuto? Una darkwave/electro dark con spunti industrialeggianti, come da titolo. Cosa c'è di innovativo? Nulla. Come nei Summoning. Ma come per i Summoning la potenza evocativa e l'atmosfera generata sono da oscar alla colonna sonora, questa volta però non per un viaggio a Mordor, dimenticate Tolkien. Siamo di fronte ad uno scenario gelido, disumano, a tratti è evocato un futuro asettico, sembra di essere di fronte ad una nova che si spegne lentamente, nella più totale indifferenza delle stelle che la circondano. Marziale, introspettivo, alienante, "This Killing Emptiness" è il secondo lavoro di una one-man-band che passa inosservata ai più (come il principale progetto Summoning che ha dovuto attendere 15 anni ed arrivare ad un magnifico sesto album per godere di una certa notorietà). Le sonorità sono caratterizzate da beat profondi, giri di synth che sfiorano a volte nel sinfonico (ma non prepotentemente come nei Summoning) e la voce di Richard, come mai l'avevo sentita, niente più screaming, bensì profonda e graffiante, quasi "sporca", da sembrare in antitesi con tutto il resto, con il vuoto. Questo vuoto che uccide. Il nulla, l'infinito, disturbati e corrosi dalla presenza umana. E la copertina di Beksinski accresce e conferma le sensazioni siderali scatenate. Non difficilissimo da digerire, ma non per tutti.

VOTO: 7,5

Tracklist:
1. Far gone light 5:23
2. Lifeless sentiments 5:53
3. The fiend 5:10
4. I come for you 5:31
5. This Killing Emptiness 5:31
6. Heartbeat 6:00
7. The last time 5:22
8. Shades of former light 5:31
9. The denial 6:43
10. Lost in daze 6:12

Current 93 - All the pretty little horses

Current 93 – All the pretty little horses
Neofolk
(1996)



Non so bene da dove cominciare per recensire questo album. Inizio col dire che l’avrò ascoltato quasi cinquanta volte e lo ritengo ormai uno dei miei album preferiti di sempre, un masterpiece non solo del neofolk ma della musica in generale. È incredibile come David Tibet sia capace di mettere in musica quegli aspetti più malinconici della nostra vita riuscendo a fare breccia nelle viscere, fino al cuore. È incredibile soprattutto come sia riuscito a musicare ciò che noi riteniamo unico, personale, solo a volte condivisibile: il ricordo. Il ricordo della gioventù perduta, di un passato che non ritornerà mai più. “The Frolic” è l’espressione definitiva di questo sentimento, pezzo che mischia una potente dose di malinconia ad una sensazione di violenta transizione, la crescita, che annienta l’innocenza e ci trasforma in un qualcosa che forse mai avremmo creduto di divenire (“I have become what I hate”). “The Blood Bells Chime” ne è un’ ulteriore conferma, oltre ad essere, assieme a “The Frolic”, uno dei picchi dell’album: intensa, incalzante, struggente. Necessaria puntualizzazione: l’album si rifà alla filosofia “Patripassianista”, un insegnamento (non ortodosso) che esprime il dolore che Dio prova per il figlio crocifisso. Difatti Dio è concepito come trinità (padre, figlio e spirito santo) ma il fatto che soffra (addirittura più del figlio) è considerato inconcepibile (in quanto Dio non prova dolore). È questo un modo per annullare la divisione tripartita della divinità: Dio, secondo il Patripassianismo, non esiste in tre differenti entità, bensì appare soltanto in questo modo, essendo in realtà uno ed unico. Ora, David Tibet è un personaggio decisamente bizzarro e la sua conoscenza della religione cristiana è sicuramente approfondita, quindi non ho i mezzi per interpretare il modo in cui sfrutta i testi sacri inserendoli nelle sue composizioni. Posso però dare un’interpretazione personale circa l’utilizzo della filosofia patripassianista in questo album. Il protagonista (cioè l’io ormai invecchiato, un ego in cui ogni ascoltatore si può rispecchiare) incarna il Dio patripassianista; soffre più del figlio, cioè quel ragazzino che gli torna spesso in mente, nient’altro che lui stesso. È un album in grado di far scaturire un vortice di emozioni intense, dal dolore alla malinconia, momenti dolci e fanciulleschi (vedi la title-track) ed altri apocalittici e desolanti. Notare il particolare utilizzo delle urla bambinesche, che fanno da sottofondo ad alcune canzoni; fate caso a come riescano ad intrecciarsi nel tessuto sonoro creando delle visioni annebbiate. Non so voi ma io sono solito associare, non saprei dire se per volontà mia o se a causa di processi cerebrali a me ignoti, dei colori ai ricordi. Degli aloni diciamo, che fanno da patina a certe situazioni rimaste impresse. Il verde, l’arancio, il giallo, l’azzurro. È bizzarro come in numerosi passaggi di questo capolavoro mi pare di assistere al plasmarsi di veli colorati, a volte impercettibili, a volte simili a densa vernice che scorre e assorbe ciò che trova sul suo cammino. Un altro modo in cui percepisco i ricordi è come gocce di rugiada coagulate nello spazio e nel tempo, trasformatesi in piccole perle incastonate nelle ragnatele cristalline dell’infinito. In altri passaggi mi sembra davvero di assistere alla visione di un’infinità siderale dove rispendono, glaciali, gli astri, solitari ed imperituri.
Non è il caso di passare in rassegna ogni pezzo (l’apice, comunque, credo sia raggiunto dal trittico “The Blood Bells Chime” – “The Frolic” – “All The Pretty Little Horses”), è un’opera che difficilmente si può riuscire a frammentare senza perdere passaggi intensi. Essere riusciti a trascrivere in musica un aspetto così fondamentale, personale e profondo della nostra vita ritengo sia stata un’impresa veramente eccezionale, un momento in cui l’arte supera sé stessa.

VOTO: 9

Tracklist :
1. "The Long Shadow Falls" – 2:15
2. "All the Pretty Little Horsies" – 2:35
3. "Calling for Vanished Faces I" – 1:50
4. "The Inmost Night" – 2:16
5. "The Carnival Is Dead And Gone" – 3:11
6. "The Blood Bells Chime" – 3:00
7. "Calling for Vanished Faces II" – 4:10
8. "The Frolic" – 8:11
9. "The Inmost Light" – 1:45
10. "Twilight Twilight, Nihil Nihil" – 8:22
11. "The Inmost Light Itself" – 9:29
12. "All the Pretty Little Horses" – 2:34
13. "Patripassian" – 5:49
14. (hidden track - a reading by Thomas Ligotti)

Electric Wizard - Dopethrone

Electric Wizard - Dopethrone
Doom
(2000)



Un macigno da portare in groppa fino al Golgotha, dove verrai crocifisso al termine del supplizio. Una colata di catrame che ti strappa la retina dagli occhi, una sbonghettata infernale che si propaga come una nube tossica. Questo Dopethrone è l’album più tirato ed estremo degli Electric Wizard, considerato uno degli album più pesanti di sempre. Chi è il mago elettrico? Sono quattro tossicomani inglesi (in principio tre, negli anni si aggiunse la moglie di Jus, Liz, alla seconda chitarra) figli del doom più classico e non solo (tanto Black Sabbath e zio Ozzy quanto i primi Cathedral) mischiato ad una certa componente punkeggiante, il tutto in una salsa così lisergica ed acida da strapparti le orecchie e fonderti il cervello. Nei loro lavori troviamo anche numerose influenze psichedeliche che però in questo Dopethrone sono praticamente assenti. Non mancano mai feedback e drone inseriti qua e là, diversi giri di chitarra melodici (ma sempre molto sporchi) ed inserti tratti da questo o quel film horror (preferibilmente di serie B). Le tematiche inoltre calzano a pennello: caccia alle streghe, racconti di Lovecraft, alchimia, esoterismo, trip allucinogeni. Non inventano nulla quindi, ma miscelano e reinterpretano un genere (il doom) in un modo decisamente originale e personale, rendendolo veramente nero, visionario e sconvolgente. “Vinum Sabbathi” apre le danze e subito ci si scontra con questo mastodontico essere, che ti circonda come una colata di magma e ti affonda in un abisso. L’incedere è lento e inarrestabile. Segue il loro pezzo migliore, pietra miliare del doom, “Funeralopolis”, introdotto da un giro di chitarra malsano, che cresce, affondandoti i suoi tentacoli nel cranio, come una lamiera che taglia carne ed ossa, scaraventandoti sulle macerie di un futuro post-atomico. Solo nella più totale distruzione e desolazione. Ma quanto cazzo non mi intrippa? Segue “Weird Tales…” dove i tempi vengono rallentati e nella seconda metà del pezzo (dalla durata di un quarto d’ora) assistiamo ad un passaggio atmosferico / drone. Con “Barbarian” si riprende la sfuriata che cessa nella successiva “I, the Witchfinder”, sulla scia di “Weird Tales…”, altro trip che si protrae fino alla fine in un giro di chitarra acido e quasi psichedelico. Un brevissimo intermezzo strumentale (“The Hills Have Eyes”) ci apre un altro classicone, “We Hate You”, straziante anti-ballad. Chiude il tutto la title-track “Dopethrone”, lenta ed inarrestabile, che nonostante i suoi 20 minuti di durata si interrompe a metà lasciandoci 10 minuti di silenzio che si concludono con il sample di un qualche film. Consigliato a chiunque anche se per molti sarà dura digerire queste sonorità, decisamente cacofoniche e spiazzanti.

“…Nuclear warheads ready to strike, this world is so fucked, let's end it tonight…”

VOTO : 8+

Tracklist:
1. "Vinum Sabbathi" – 3:06
2. "Funeralopolis" – 8:43
3. "Weird Tales" – 15:04 I. "Electric Frost" II. "Golgotha" III. "Altar of Melektaus"
4. "Barbarian" – 6:29
5. "I, The Witchfinder" – 11:04
6. "The Hills Have Eyes" – 0:46
7. "We Hate You" – 5:08
8. "Dopethrone" – 20:48
9. "Mind Transferral" – 14:54 (reissues only)